Conversi ad Dominum – L’orientamento nel culto

Articolo di don Enrico Finotti pubblicato su Liturgia Culmen et Fons n° 4 (dicembre 2013) – riprodotto con permesso dell’Editore.

“Conversi ad Dominum”

L’ORIENTAMENTO NEL CULTO

don Enrico Finotti

La liturgia è essenzialmente un atto di culto a Dio. Lo afferma con chiarezza sia la definizione di liturgia già proposta dall’enciclica Mediator Dei di Pio XII

La sacra Liturgia è il culto pubblico che il nostro Redentore rende al Padre, come Capo della Chiesa, ed è il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di Lui, all’Eterno Padre: è, per dirla in breve, il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra.

sia la successiva definizione di liturgia ripresa dal Vaticano II (SC 7)

Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo… in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra.

Come si può constatare, la dimensione cultuale è geneticamente costitutiva della natura stessa della liturgia. Elevare tutto il popolo ad un rapporto diretto con Dio, il più possibile libero da ogni distrazione, è l’intento e la meta dell’azione liturgica. L’orientamento dello spirito, della mente e del cuore ad Deum è quindi atteggiamento imprescindibile e condizione primaria ed essenziale per porre un atto liturgico che sia conforme alla sua natura più vera e profonda.

Col termine orientamento, dunque, si intende riferirsi a questo sguardo interiore ed esteriore a Dio, che nella tradizione liturgica, orientale e occidentale, si esprime con modalità gestuali differenti, ma concordi nell’unico obiettivo: ricercare e contemplare il volto di Dio.

Data la costituzione dell’uomo di anima e corpo, non è possibile non conformare all’orientamento interiore dello spirito la posizione, gli atteggiamenti e i gesti corporei. Infatti, pretendere di adorare con la sola anima senza coinvolgere anche il corpo è porsi in uno stato innaturale, costringendo l’anima a subire una continua frizione con le distrazioni esteriori che frenano e feriscono il moto dello spirito nell’atto di volgersi a Dio. Dunque nella celebrazione liturgica l’anima e il corpo insieme, in mutua simbiosi, devono orientarsi al Signore:

Tutto il complesso del culto che la Chiesa rende a Dio deve essere interno ed esterno. È esterno perché lo richiede la natura dell’uomo composto di anima e di corpo; perché Dio ha disposto che “conoscendoLo per mezzo delle cose visibili, siamo attratti all’amore delle cose invisibili” (cfr. Missale Romanum, Prefazio della Natività)…(Mediator Dei)

Se è vero che tutta la vita del cristiano si deve svolgere sotto lo sguardo di Dio davanti alla sua presenza e nell’obbedienza alla sua legge – e in tal senso si possa parlare dell’intera vita come ‘liturgia’, culto a Dio gradito – tuttavia, soltanto nei momenti propri del culto l’orientamento a Dio è diretto, mentre in ogni altra azione è sempre indiretto, in quanto si deve porre attenzione agli altri, alle cose, alle situazioni, al mondo. Possiamo allora rilevare che il volgersi in modo diretto ed esclusivo al Signore, lasciando ogni altra distrazione, segna il passaggio da una attività qualsiasi a quella specifica del culto, sia pubblica che individuale.

Poiché Dio è invisibile si rende necessaria la mediazione dei simboli che richiamino Lui, la sua misteriosa presenza e la sua azione salvifica. Sono i segni del sacro che si devono distinguere da tutto il complesso delle creature, che elevano certamente al Signore, ma in modo indiretto e riflesso. Non distinguere sufficientemente il sacro dal profano incrina non poco l’orientamento liturgico, anzi lo estingue in quanto lo priva del suo scopo: distogliere lo sguardo dalle creature per elevarlo al Creatore. Senza tali segni le cose del mondo diventano opache ed equivoche costituendo una distrazione dal soprannaturale, che invece i segni sacri indicano in modo diretto e immediato. In realtà è appunto il sacro autentico (ossia conforme alla vera fede) che interpreta rettamente il profano e ne svela la sua origine e finalità riconducendo ogni cosa a Colui che l’ha creata. Senza questa necessaria mediazione del ‘sacro’ – dopo il peccato originale – le creature si oscurano e il loro fascino ci distoglie con facilità dal loro Autore ed esse stesse perdono la loro identità. Infatti, come ben si esprime il Concilio Vaticano II, “La creatura senza il Creatore svanisce” (GS 36).

Ecco allora il motivo per cui l’orientamento nel culto ha sempre espresso movimenti e segni corporei ben noti con lo scopo di innalzare lo spirito al mistero divino: elevare gli occhi e le braccia al cielo, volgersi al sole nascente, verso oriente o verso Gerusalemme, guardare all’altare e alla croce, contemplare il SS. Sacramento o una sacra immagine, ecc. Senza tali gesti la liturgia perde la sua forza e la sua visibilità e non potrà più manifestare quella sua intrinseca coralità, che la configura come un atto pubblico e comune del popolo di Dio.

L’identità della liturgia

Qual è allora lo scopo della liturgia? È quello dell’adorazione. All’uomo che si prostra con umiltà davanti alla divina Maestà Dio risponde con la santificazione della sua creatura: due movimenti ascendente e discendente che non possono mai mancare e devono comporsi nel dovuto equilibrio. Nella liturgia domina l’orientamento di tutti ad Patrem e in essa il rapporto reciproco tra i fratelli non è mai diretto (faccia a faccia), ma laterale: insieme, ma rivolti al Signore con lo sguardo a Lui, nel canto della sua lode, nell’ascolto della sua parola, nell’adesione al suo Sacrificio.

Ogni altra attività invece si relaziona in modo diretto con gli altri, con le cose e le infinite vicende della vita profana, pur sempre nell’orizzonte religioso attinto dall’orazione.

Non è parte quindi della liturgia l’intera attività pastorale che si svolge nel mondo e inerisce alle mutevoli situazioni della vita. Anzi, per celebrare degnamente il culto santo, si deve uscire dalla mobilità e materialità dell’affanno quotidiano per entrare al cospetto di Dio e conversare cuore a cuore con Lui. Da questa estraneazione ne nasce una potente carica caritativa che poi trasforma il mondo. Nel contesto odierno però il ritiro sul monte per celebrare la liturgia non è compreso e si pretende di cogliere il mistero nel tumulto della vita e nel grigiore del quotidiano nei quali però il mistero è svilito e silenziato. Non è possibile non distinguere i due ambiti, come tutta la storia della salvezza testimonia: il ritiro sul monte per la liturgia è condizione indispensabile per trasformare la realtà e dare vigore ed efficacia ad ogni opera umanitaria. La confusione degli ambienti e l’inquinamento dell’azione sacra con la profana non produce alcun frutto di vita spirituale, ma semplicemente la secolarizzazione della fede e la mondanizzazione della Chiesa.

Occorre allora attraversare la soglia per accedere al santuario lasciando fuori il mondo e poi riuscire da quella soglia colmi della grazia dell’Onnipotente per trasfigurare il mondo. Quella soglia oggi è rimossa e l’adorazione è distrutta dal rumore del mondo che estingue il silenzio nel quale si ode la voce di Dio. Vi è un singolare e violento andirivieni in cui il mondo invade il recinto sacro, non per accedere a esso ma per estinguerlo e non ascoltarne più la voce. Per questo Dio stabilì fin dall’antichità le norme per la costruzione del santuario e per la degna celebrazione del culto a Lui. Il Verbo incarnato poi, nei giorni della sua vita terrena (Eb 5,7), ci diede esempio di silenzio e di ritiro per stare col Padre, oltre che di fedele osservanza delle leggi cultuali, già da Lui comandate fin dall’antica Alleanza.

Inoltre il concetto di actuosa participatio si deve intendere nel modo giusto, ossia disporre, attraverso i riti e le preci – per ritus et preces (SC48) – stabilite dalla Chiesa, l’intera assemblea liturgica e al suo interno i singoli fedeli, ad un profondo ed autentico orientamento interiore ed esteriore verso Dio e il suo mistero. Ogni elemento che non dovesse assecondare questo orientamento essenziale, anche se introdotto in nome della partecipazione attiva, produce l’effetto contrario: la distrazione da Dio e dal suo mistero. Un sintomo eloquente di vera partecipazione attiva nella liturgia lo si riscontra con certezza allorquando al termine della celebrazione l’assemblea rimane spontaneamente in silenzio e in atteggiamento di venerazione e devozione. Quando, invece irrompe immediatamente il movimento convulso, le chiacchiere e magari gli applausi vi è il sintomo evidente che la liturgia si è svolta nella dissipazione senza aver realizzato alcun effettivo orientamento al mistero, ossia ha fallito proprio nella sua finalità più specifica.

Un fenomeno attuale

Assistiamo nelle nostre comunità cristiane ad un fenomeno ‘globalizzante’ per il quale la celebrazione liturgica sembra essere diventata l’unica manifestazione della vita della parrocchia e in essa entra con larghezza ogni genere di attività pastorale, a tal punto che l’edificio stesso della chiesa assomiglia ad un locale multiuso dove ogni iniziativa viene accolta senza alcun discernimento.

Si intende che con questa prassi l’orientamento ad Deum nell’esercizio del culto viene alquanto compromesso se non addirittura del tutto dimenticato.

Possiamo individuare le radici di questo squilibrio in tre cause concatenate tra di loro: l’invasione della ‘pastorale’ nel rito; lo scambio e la confusione degli ambienti; l’eccessiva accentuazione sociologico-umanitaria della celebrazione stessa.

  1. L’invasione della ‘pastorale’ nel rito: tutto e di tutto nella Messa

L’inserimento nella Messa di alcuni Sacramenti e sacramentali, se fatto con competenza e misura, secondo le modalità stabilite nei libri liturgici, è conforme alla tradizione della Chiesa. È diverso però il caso di attività tipicamente pastorali che non hanno carattere cultuale-liturgico e che devono essere realizzate nei tempi e negli ambienti loro propri. Infatti, attività, pur a carattere religioso, ma attinenti alla cultura, allo spettacolo, al folclore debbono trovare spazio nei luoghi a ciò deputati.

Nella Messa quindi succede di tutto: i riti sono modulati con estrema libertà a seconda della circostanza e con un totale asservimento al tipo di assemblea volta a volta convocata, senza più un chiaro senso del sacro. Anniversari, accoglienza di ospiti, discorsi di circostanza, consegna di riconoscimenti, testimonianze, piccoli intrattenimenti con i bambini, cartelloni, applausi, giornate sociali, associazioni di vario genere, raccolta di fondi a scopo umanitario, ecc. invadono l’Ordo Missæ e ne alterano la struttura, l’equilibrio e la bellezza, infarcendolo di elementi estranei, di lungaggini noiose e di soggettivismi sterili.

Si è ormai dimenticata l’affermazione conciliare che la liturgia non è l’unica attività della Chiesa: La sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa (SC 9) e anche quella che afferma l’eccellenza della liturgia su tutte le altre attività ecclesiali: Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado (SC 7).

Si rende urgente una considerazione che aiuti a mettere ogni cosa al suo posto. È necessario ristabilire i giusti confini distinguendo il momento liturgico da tutto il resto e recuperando l’identità propria della liturgia che deve mantenere la sua natura cultuale e il suo ambito sacro in modo tale che da un lato la liturgia assolva degnamente al suo scopo e dall’altro le molteplici altre attività non invadano il territorio liturgico profanando il santuario, perdendo esse stesse la fonte della loro rigenerazione spirituale.

Coloro che volessero ancora sostenere che una simile libertà sia conforme allo spirito della riforma liturgica del Vaticano II si scontrano con la nota affermazione conciliare che afferma: Regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa… di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica (SC 22).

  1. Lo scambio e la confusione degli ambienti: chiesa, oratorio, sagrato, teatro, piazza…

Non solo nelle nostre umili chiese parrocchiali, ma anche nelle cattedrali e in importanti basiliche, si tende ad ospitare ogni genere di manifestazioni che, pur conservando una certa relazione al sacro, non sono tuttavia atti propriamente di culto, ma piuttosto di natura culturale, artistico e folcloristico.

Ciò si verifica quando nelle chiese si tengono concerti, recitals, drammatizzazioni, conferenze, tavole rotonde, congressi, ecc. Sembra ormai questa una scelta ritenuta opportuna, anzi un segno di apertura mentale, di incontro culturale, di accoglienza dei lontani e disponibilità degli ambienti ecclesiastici.

La chiesa in questo modo non è più il luogo del silenzio, della preghiera e della meditazione, ma quella sala sociale dove succede di tutto. Per di più è diventata un’abitudine che nel luogo sacro si passi dai convenevoli iniziali al silenzio, limitato strettamente al tempo della celebrazione e subito rotto con immediatezza al termine di essa, sciogliendosi talvolta in un clima chiassoso da piazza.

Importanti valori vengono così oscurati, come il senso del sacro, l’orientamento a Dio, il clima dell’orazione, la dimensione personale della preghiera nel silenzio e nel raccoglimento.

In questa situazione che senso può aver avuto corredare le nostre parrocchie di importanti strutture pastorali: teatri, auditorium, oratori, sale di riunione e di catechesi, ambienti ricreativi, cortili, sagrati, ecc.? La tradizione della Chiesa, infatti, conosce nelle strutture ecclesiali diversi ambiti che proteggono l’ambiente liturgico e dispongono in modo distinto e conveniente i luoghi delle altre attività ecclesiali. Chiesa e struttura pastorale è un binomio necessario, che deve mantenere rigorosamente la distinzione e al contempo l’intrinseco legame.

Ci sono anche coloro che concepiscono la chiesa non tanto come casa di Dio nella quale Egli stesso è presente e convoca il suo popolo per il culto, ma come casa del popolo di Dio, luogo in cui la comunità si esprime in ogni sua manifestazione.

Ma quale potrà essere allora il significato della Dedicazione del tempio, come luogo santo, esclusivo per la liturgia e la conservazione e adorazione del SS. Sacramento?

È chiaro che coloro che crescono in una tale impostazione non comprenderanno assolutamente il senso dell’orientamento a Dio e la tipicità della preghiera e della sua più alta espressione, la liturgia. Essi non potranno far altro che incontrare sempre e solo ciò che ‘noi facciamo’ nella continua creatività e mutevolezza, senza poter accedere a ciò che Dio opera nel silenzio e nella sobrietà del suo mistero.

  1. L ‘eccessiva accentuazione umanitaria del rito: rivolti solo all’assemblea con uno sguardo esclusivamente orizzontale

Anche il modo concreto di celebrare rivela quasi una ormai spontanea impostazione sociologica in ogni elemento rituale: la processione introitale soprattutto in certe celebrazioni solenni tende ad essere un passaggio tra la gente e un reciproco salutarsi anziché un incedere sacro del sacerdote che guarda all’altare e orienta ad esso lo sguardo di tutti i fedeli; i riti introitali sembrano ormai impiegati unicamente a ‘fare comunità’ e, dopo eccessivi discorsi di saluto e di accoglienza, gli elementi cultuali di accesso alla divina Maestà (come l’atto penitenziale) sono come travolti da un fiume esorbitante di parole e perdono totalmente la loro forza: ciò che emerge è il socializzare più che l’adorare. La liturgia della Parola è pure piegata ad un criterio antropologico sociologico che sconfina spesso in una espressione tipica della drammatizzazione e dello spettacolo; la sacralità dei riti che circondano l’ambone e l’evangeliario decade lasciando il posto di una comune comunicazione priva di respiro soprannaturale che non richiama l’incontro cultuale con il Signore presente che parla al suo popolo; l ‘omelia diventa un intrattenimento dialogico e di dibattito almeno con i bambini; la preghiera dei fedeli raccoglie senza regola un insieme di espressioni sentimentali e spontaneistici con contenuti ripetitivi e attenti solo ad una cronaca giornalistica e locale; la processione offertoriale in certe occasioni si riduce ad un agglomerato di amenità portando presso l’altare qualsiasi cosa in un clima ormai totale di solidarietà filantropica senza alcun alito di offerta interiore in unione al sacrificio di Cristo; la liturgia eucaristica scorre via veloce senza quella sacralità che le è conforme e la sua dimensione ascendente sembra estinta in nome di una totale versione conviviale; i riti di congedo in analogia a quelli iniziali riprendono quello scambio di comunicazioni e quella libertà dell’incontro vicendevole che tanto assecondano la mentalità antropologica e tutto si risolve in un comune incontro umanitario, nel quale tuttavia sembra che il soprannaturale e il sacramento non abbiano più quel peso e quell’efficacia di grazia che dovrebbero emergere sovrani in una vera e autentica celebrazione della sacra liturgia. Infatti, tutti si trovano a loro agio al di là di quel indispensabile verifica che dovrebbe discernere in ognuno, il credente dal non credente, la vita di grazia dalla vita nel peccato, il senso dell’eterno e della sua maestà e la visione terrenista, agnostica ed atea. Tale effetto non può essere certo scambiato per l’unità, la pace, la concordia, l’universalità e l’accoglienza richiesti dal Signore. Questa altissima meta in realtà passa attraverso il pentimento e la conversione che possono insorgere unicamente se i santi misteri sono celebrati nelle condizioni di fedeltà e di dignità che il Signore stesso ha stabilito e la sua Chiesa ha sempre richiesto.

Conclusione

Con tale prassi, assai diffusa, anzi considerata espressione di vivacità e di aggiornamento non è più possibile intravvedere un’educazione al senso del sacro, né parlare di orientamento ad Deum. Infatti ogni cosa è rivolta al mondo e ogni attenzione è riservata alla gente. Il conversare e il relazionarsi reciproco è prevalente e talvolta esclusivo. Di questo passo i fedeli che esprimessero ancora un desiderio di pietà e di intimità riflessiva ed adorante dovranno cercarlo fuori della liturgia diventata la celebrazione del nostro stare insieme, delle nostre feste e delle nostre attività. Il senso stesso di Dio e della sua misteriosa presenza svanisce. La presenza reale della SS. Eucaristia è del tutto ignorata e la stessa comunione diventa un rito simbolico e globale di tutti i presenti senza alcun discernimento. Ma quale potrà essere la formazione spirituale dei bambini e giovani che ancora frequentano, condizionati da simili liturgie e quali impressioni simili esperienze potranno lasciare nella loro anima, qualora non trovassero più alcuna differenza tra la chiesa e il mondo, tra la piazza e la casa di Dio, tra il linguaggio corrente e quello dell’azione sacra?

“Non sembra che questo costume sia un progresso, non contribuendo assolutamente a una pastorale di qualità. Perciò occorrono dei seri correttivi, distinguendo gli ambienti (chiesa, sagrato, oratorio, teatro), definendo i confini delle diverse azioni ecclesiali (liturgia, spettacolo, socializzazione, folclore, ecc.). È inevitabile che ciò richieda maggior impegno e preparazione, tuttavia potrà garantire il frutto di una più sicura maturazione, di una più nobile celebrazione e di una più degna testimonianza” (Finotti E., Vaticano II 50 anni dopo, Fede&Cultura 2011, p. 341).

Il Signore però non abbandona la sua Chiesa ed è consolante che molti giovani, laici e sacerdoti, stiano riscoprendo il senso vero e sacro della liturgia e abbiano una spiccata e vigile attenzione ai veri fondamenti di una celebrazione liturgica secondo il cuore di Cristo nella perenne tradizione della Chiesa. Ad essi il nostro sursum corda per la nobile e grata missione di un autentico ritorno a Dio nel senso più profondo del conversi ad Dominum.

Appello alla formazione sui documenti autentici del Concilio

Nella mentalità comune la riforma della liturgia è fondamentalmente intesa come abbandono del latino e celebrazione «verso il popolo». In questi due elementi, certamente i più impattanti sulla massa delle comunità cristiane, si è vista l’essenza quasi della «nuova liturgia» del Vaticano II. Ora, certamente, questi due elementi sono importanti e fortemente caratterizzanti, tuttavia non al punto da escludere la prassi precedente. La non accettazione assoluta delle lingue parlate e dell’orientamento «verso il popolo» è ugualmente illegittima come l’esclusione assoluta del latino e dell’orientamento «ad Deum». È abusivo sia il non riconoscere le conquiste pastorali della riforma che portano la liturgia al popolo, sia l’assurda e indiscriminata eliminazione della lingua latina e del canto gregoriano. La Chiesa nei suoi documenti ha sempre offerto il giusto equilibrio, che purtroppo è mancato ogni volta che si è voluto imporre l’una o l’altra delle due posizioni estreme.

Coloro che attentamente e regolarmente hanno seguito con intelligenza e spirito religioso di obbedienza, senza indulgere a pregiudizi di sorta, lo sviluppo dei documenti magisteriali postconciliari, soprattutto del papa Paolo VI, hanno potuto constatare la gradualità, la prudenza e l’equilibrio dottrinale e pastorale impressi alla attuazione della riforma liturgica. Purtroppo molti, accantonato l’ascolto del Magistero del Papa, si sono acriticamente abbeverati a scuole, movimenti e comportamenti estranei al pensiero della Chiesa o comunque difformi dal modo di intendere la liturgia, proprio della Chiesa. da ciò deviazioni di ogni genere e incalcolabile perdita di tempo e di floride energie. Per questo oggi ci si trova davanti ad un nuovo, urgente appello alla formazione sui documenti autentici del Concilio e sulle edizioni tipiche dei libri liturgici riformati.

Don Enrico Finotti, La liturgia romana nella sua continuità, Sugarco Edizioni 2011

Non è pane, è Gesù. Il corretto modo di fare la comunione

di Padre Paul Cocard

Prefazione di mons. Athanasius Schneider

Ed. Fede & Cultura

La Comunione sulla lingua aiuta a mantenere la distinzione, ereditata dalla Parola di Dio e dalla Chiesa primitiva, tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale. Quest’ultimo deputa il prete al compito dell’Eucaristia che ne ha dunque la custodia e la responsabilità. Durante la Messa, l’Eucaristia, la sua celebrazione e la sua distribuzione gli sono affidate. San Giovanni Paolo II aveva sottolineato che il prete ha le mani consacrate per toccare l’Eucaristia.

In questo campo, la Comunione nella mano traduce di fatto una diminuzione e anche un certo rigetto della Fede cattolica nella Presenza reale. È lontano dall’essere neutro: permette al laico di mettersi allo stesso posto del prete nel suo rapporto all’Eucaristia e di smarcarsi da un forte attestato di Fede nella presenza di Cristo sotto le apparenze del pane e del vino consacrato per non riconoscervi che un segno di comunione tra tutti i membri dell’assemblea o, per lo più, un segno di una presenza puramente spirituale del Cristo.

A few words about language…

And finally allow me to say just a few words about language. Here again there are two points to consider, which between them open the possibility of a whole range of varying decisions and practice. On one hand, using the magnificent terminology of Hellenistic culture, the Roman Canon calls the action of the Mass rationabile obsequium—an action of the word, an action in which spirit and reason play their part. The Word of God wants to speak to man, wants to be understood and answered by him. That is why in Rome, in about the third century, when Greek was no longer generally understood, they made the transition from Greek, which had hitherto been used in the Eucharist, to Latin. But there is also a second point. The Church later hesitated to make use of the developing national languages of Europe in the liturgy, first of all, because for a long time they had not attained the literary level or the unity of usage that would have permitted a common celebration of the Eucharist over a wide area; but then also because she was opposed to anything that would give a national identity to this mystery, because she wanted to express in the language, too, the inclusive character that reaches out beyond the boundaries of place and time. She was able to keep on with Latin as the common liturgical language because she knew that, while it is, in the Eucharist, also a matter of comprehensibility, yet it is more than comprehensibility—that this demands a greater, more mature, and more inclusive understanding than that of mere comprehension: she knew that, here, the heart must also understand.
After what we have said, use of the vernacular is in principle justified. It would be a danger only if it were to drag the Eucharist back into the realm of national culture. It would be a danger only if we were to push our translation to the point where only what was immediately comprehensible or, even, obvious in everyday terms remained. In any such translation you would have to omit more and more, until the essential meaning disappeared. Because things are as they are, we should gratefully accept both: the normal form of Eucharist is in the vernacular, but we should not on that account forget to pray it, to love it, in the common language of the Church over the centuries, so that in this unsettled and changeable world, in which the nations are forever meeting and mingling with each other, we are still able ever and again to worship together and, in that language, to praise the living God together. Here too, we should rise above a fruitless dispute and become one in the multiplicity the Lord has given us; one in recognizing and in loving the understanding and comprehensibility but also the inclusiveness that transcends the rationality of what is immediately understood.

(Joseph Ratzinger – Theology of the Liturgy – Ignatius Press)

La Messe en latin et en grégorien

de Denis Crouan

Le concile Vatican II n’a jamais interdit ou limité l’usage du latin et du chant grégorien. La dernière édition du Missel romain rappelle d’ailleurs, en son article 41, qu'”il est nécessaire que les fidèles sachent chanter ensemble, en latin […] au moins quelques parties de l’Ordinaire de la messe […]”. C’est le minimum demandé. Aujourd’hui, des signes encourageants conduisent à penser que la Constitution Sacrosanctum Concilium devrait pouvoir enfin être totalement et fidèlement appliquée: les récents documents de la Congrégation pour le Culte divin ainsi que les enseignements du pape Benoît XVI vont dans le sens d’un mouvement en faveur de l’expression de la liturgie rénovée qui soit véritablement conforme à “l’ancienne norme des Pères”, tant pour ce qui concerne la dignité des actions rituelles que pour ce qui touche à la qualité du chant sacré. Ce désir d’une “réforme de la réforme liturgique” – selon l’expression du Cardinal Ratzinger – est encore accentué par le fait que, lors du dernier synode sur l’Eucharistie, des évêques du monde entier ont souhaité que, pour mieux exprimer l’unité et l’universalité de l’Eglise au cours des rencontres internationales, la messe soit célébrée en latin et accompagnée de chants grégoriens; ils ont en outre demandé “que les prêtres se préparent dès le séminaire, à comprendre et valoriser la messe en latin par l’utilisation de prières latines et du chant grégorien, et à ne pas abandonner la possibilité d’éduquer les fidèles dans ce sens.” (proposition 36). Le présent ouvrage va dans le sens de ces orientations en dépassant les débats stériles qui se sont élevés au cours de l’immédiat après-concile et qui ont divisé bien des fidèles. Il s’agit maintenant d’aborder en toute liberté la question du statut liturgique de la langue latine et du chant grégorien, dans une totale fidélité à l’enseignement de Vatican II.

La lingua latina

Sull’uso della lingua latina nella liturgia, si rimanda al cap. II sulla lingua sacra. In questo contesto si ricorda solo che il culto cristiano, fino alla metà del IV secolo fu in lingua greca; quindi venne tradotto in latino. Latino che assume e mantiene i tratti eleganti di una lingua letteraria e ornata, a motivo dell’uso cultico: dunque non si assiste a una “democratizzazione” della Liturgia che qualcuno vorrebbe paragonare all’ormai prevalere della lingua vernacola nelle moderne celebrazioni! Quanto alla lingua volgare nelle celebrazioni liturgiche, va rilevato che nel secolo scorso si è progressivamente dato oculato spazio alle lingue nazionali per quelle parti dei riti in cui si ritiene esse possano favorire una migliore fruizione del rito da parte dei fedeli: è il caso del Rituale Romanum latino-francese (1948), latino-tedesco (1950), latino-italiano (1953), così come la concessione fatta già dopo il Concilio di Trento per alcune terre di missione o la pratica di leggere le letture nella lingua del luogo, così come esortato dall’Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti sulla Musica Sacra e la Sacra Liturgia del 3 settembre 1958 (nn. 14c; 16c; 96e). Se più di una ragione consiglia di mantenere (o nella nostra epoca dovremmo dire ripristinare) l’uso della lingua latina nella Liturgia della Chiesa, una saggia attenzione pastorale non disdegnerà il ricorso alla lingua vernacola laddove consentito, secondo quanto detto sopra. L’introduzione nel culto della lingua volgare, in maniera pressoché esclusiva, è il “frutto maturo” del protestantesimo.

Il Guéranger scrisse profeticamente:

Poiché la riforma liturgica ha tra i suoi fini principali l’abolizione degli atti e delle formule mistiche, ne segue necessariamente che i suoi autori debbano rivendicare l’uso della lingua volgare nel servizio divino. Questo è uno dei punti più importanti agli occhi dei settari. Il culto non è una cosa segreta, essi dicono: il popolo deve capire quello che canta. L’odio per la lingua latina è innato nel cuore di tutti i nemici di Roma. […] Riconosciamolo, è un colpo maestro del protestantesimo aver dichiarato guerra alla lingua sacra: se fosse riuscito a distruggerla, il suo trionfo avrebbe fatto un gran passo avanti. Offerta agli sguardi profani come una vergine disonorata, la liturgia, da questo momento, ha perduto il suo carattere sacro, e ben presto il popolo troverà eccessiva la pena di disturbarsi nel proprio lavoro o nei propri piaceri per andare a sentir parlare come si parla sulla pubblica piazza (P. Guéranger, Institutions Liturgiques, vol. I, Paris 1878, pp. 402-403, trad. F. Marino).

Marino Neri, Salirò all’altare di Dio. Principi di Sacra Liturgia, Fede & Cultura 2015, pp. 145-146 (riprodotte con il gentile permesso dell’Autore)

L’altare verso il popolo

È questo uno degli elementi sbandierati dai “neomodernisti” per segnare la cesura tra una “chiesa tridentina” e un “nuovo corso ecclesiale” postconciliare. Benché nessun documento né conciliare né successivo facciano obbligo di istituire nuovi altari “verso il popolo” laddove vi siano altari antichi, va detto che la questione è facilmente esauribile dal punto di vista storico lasciando parlare i fatti archeologici e letterari. Sappiamo infatti come l’attenzione del primo grande edificatore di basiliche, l’imperatore Costantino, fosse quella suggerita dalla mens liturgica del IV secolo, cioè quella di “orientare” (cioè edificare verso Oriente) la celebrazione. Questo significa che il punto di fuga verso cui si dirigeva ritualmente ogni atto di culto era l’Oriente, luogo del primo Paradiso; luogo da cui tornerà il Signore nella parusìa, simbolo stesso di Cristo secondo le ben note parole di Zaccaria: «Grazie alla bontà misericordiosa del nostro Dio, per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,78-79). Pertanto, le prime basiliche hanno l’altare rivolto verso la facciata principale, la quale è edificata verso Oriente (si vedano per esempio le basiliche patriarcali romane, la basilica dell’Anàstasis a Gerusalemme, ecc.). I fedeli, come mostrano molte evidenze archeologiche, non occupavano la navata centrale, bensì stipavano le ampie navate laterali, motivo per cui la basilica costantiniana tipica è a cinque navate (di cui quattro laterali), e le maggiori chiese erano addirittura a sei navate. Essi circumstant l’altare, come ricorda il Canone romano (Memento, Domine, famulorum famularumque tuarum et omnium circumstantium): e il verbo circumsto, in lingua latina, esprime “l’atto di chi sta intorno”, non già come un moderno commensale attorno al tavolo, bensì, in senso più ampio, a mo’ di corona rispetto a un vertice, che è nella fattispecie l’altare. Il circum latino corrisponde, di fatto come un calco in molti verbi e sostantivi composti, al greco perì, con la valenza certamente di “intorno”, ma anche di “presso”. Ma questa usanza di costruire edifici sacri con la facciata all’est reale comincia già a incrinarsi all’inizio del V secolo, quando Paolino di Nola, descrivendo la nuova basilica di Cimitile da lui innalzata in onore di San Felice di Nola, scrive: «La facciata della basilica, poi, non è rivolta verso oriente, come è usanza più comune, ma guarda verso la basilica di S. Felice, mio signore, rivolta verso il suo sepolcro». Si fa strada il concetto che modernamente si chiama “oriente ideale”, che tanto spazio avrà nell’edilizia sacra dall’età rinascimentale in poi: l’orientamento della chiesa non volge sempre a Oriente, bensì si simbolizza un “oriente convenzionale” che può essere come nel caso di Paolino, la tomba di un santo, un luogo di un’apparizione, o, in ultima analisi, la croce, che prenderà posto sopra l’altare coll’imporsi delle chiese coll’abside a est (e dunque con il mutamento strutturale dell’altare che si edifica attaccato alla dorsale o alla retro-tabula, un pannello ornamentale posto dietro gli altari stessi) tra il IX e il X secolo. Concludendo: la celebrazione cattolica è da sempre rivolta ad Deum, secondo modalità certamente differenti nel corso della storia, ma non contrastanti, armoniche quanto alla dottrina e alla spiritualità a esse sottese. La modalità celebrativa verso il popolo è di ascendenza squisitamente luterana: secondo lo spirito della riforma protestante, infatti, la Messa non ha carattere sacrificale, bensì è un pasto commemorativo dell’Ultima Cena del Signore. Valgano, su tutte, le inequivocabili parole di Lutero:

Lasciamo ancora sussistere gli indumenti per la messa, l’altare, le candele, finché seguiamo quest’uso o preferiamo cambiarlo. Ma se qualcuno in questo vuole procedere diversamente, lo lasciamo fare. Però nella vera messa, fra veri cristiani, l’altare non dovrebbe rimanere com’è e il sacerdote dovrebbe volgersi sempre verso il popolo, come, senza dubbio, ha fatto Cristo durante la Cena (sic). Ma aspettiamo che il tempo sia maturato per ciò (M. Lutero, Messa in volgare e ordine del servizio divino, in Scritti religiosi, a cura di V. Vinay, Torino 1986).

Ancora una volta, il mito del ritorno alle origini si fa ideologia.

Marino Neri, Salirò all’altare di Dio. Principi di Sacra Liturgia, Fede & Cultura 2015, pp. 142-145 (riprodotte con il gentile permesso dell’Autore)