L’edizione dei libri di canto gregoriano: il Graduale Simplex

Un caso interessante è quello del Graduale Simplex del 1967 che contiene melodie sempre dal canto gregoriano ma più semplici (in usum minorum ecclesiarum) e con la possibilità di scelta di brani comuni per tempi liturgici più che per le singole domeniche. Come detto, questo libro era inteso come aiuto per le chiese con meno mezzi musicali, ma per una interessante eterogenesi dei fini, come mi fu anche detto da un Maestro delle Celebrazioni Pontificie, in realtà il posto in cui fu maggiormente usato fu proprio nelle celebrazioni più solenni, quelle con alla presenza del Santo Padre nella Basilica di San Pietro. Ci fu un tempo in cui in cui la Cappella Sistina eseguiva composizioni dell’allora Maestro Domenico Bartolucci i cui testi erano spesso e volentieri tratti proprio dal Graduale Simplex. Questo, con l’intento di coinvolgere di più nel canto l’assemblea, nel caso delle celebrazioni pontificie anche aiutata da un coro guida.

Leggi l’articolo completo del M° Aurelio Porfiri qui.

Porfiri: Tradizione è Gregoriano e polifonia. Senza estremismi

La Tradizione non è alle nostre spalle, ma davanti a noi. Essa non è nel passato ma all’origine.
(…)
Quello che cerchiamo nella Tradizione non è un ricordo ma una continuità, la possibilità di innalzarci ancora una volta sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto e farci vedere più lontano di loro. Quindi la Tradizione non è in un solo momento storico, ma vive nella storia ed è quindi vitale.

Leggi l’articolo completo del M° Porfiri qui.

No alla Comunione in bocca? Una raccomandazione senza evidenza scientifica

Qual è il livello di evidenza medica e il corrispondente rating di forza della nuova raccomandazione fatta dal Comitato Tecnico Scientifico per l’emergenza Covid-19? Tecnicamente tale raccomandazione, essendo fondata esclusivamente su una opinione non supportata da dati ricavati da studi scientifici mirati al tema in discussione, si colloca al IV livello di evidenza (il più basso), e presenta conseguentemente una forza di raccomandazione pari a zero. Essa è, quindi, per definizione, una raccomandazione priva di rigore e fondamento scientifico.
Sebbene molti esperti si siano espressi a favore della distruzione della comunione direttamente in bocca piuttosto che sulle mani, essendo quest’ultime pericoloso ricettacolo di germi, ad oggi non è possibile affermare con certezza scientifica quale modalità di distribuzione sia superiore all’altro in termini di sicurezza per la salute del fedele.
Quindi nessuna preferenza può essere fatta a favore di un metodo piuttosto che dell’altro. Ogni opinione in merito, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, è priva di valore scientifico. Come tale non rappresenta alcuna indicazione utile alla salute dell’individuo.

Leggi l’articolo completo del dott. Andrea Reho qui.

Medici austriaci ai vescovi: “La Comunione sulla bocca più sicura di quella sulla mano”

Ventuno medici cattolici austriaci hanno scritto una lettera che rivolge un appello alla Conferenza episcopale del loro paese perché sia revocato il divieto di ricevere la Santa Comunione sulla lingua, divieto applicato da quando è stato annunciato che la Comunione in mano sarebbe stata l’unica forma consentita per la distribuzione dell’ostia consacrata.

Dal punto di vista dell’igiene, è assolutamente incomprensibile per noi il motivo per cui la comunione sulla bocca è stata vietata in Austria. Consideriamo questa forma di distribuzione più sicura della Comunione sulle mani.

Leggi l’intero articolo qui.

La Comunione sulla mano non è un obbligo secondo il Governo italiano

Il giorno 26 giugno 2020 il Ministero dell’Interno ha pubblicato una nota che conferma che la distribuzione della Comunione sulle mani non è un obbligo, bensì solo una raccomandazione (senza evidenza scientifica):

Rimane la raccomandazione di evitare la distribuzione delle ostie consacrate portate dall’officiante direttamente alla bocca dei fedeli.

Per noi la cosa era già chiara alla lettura del Protocollo del maggio 2020.

Il significato dell’espressione “ceteris paribus”

del M° don Gilberto Sessantini, Priore della Basilica di Santa Maria Maggiore in Bergamo (Tratto da Vox Gregoriana n° 2)

AAS: Acta Apostolicae Sedis
IMSSL: Instr. De Musica Sacra et Sacra Liturgia, 1958
MD: Mediator Dei, 1947
MS: Musicam Sacram, 1967
MSD: Musicae Sacrae Disciplina, 1955
SC: Sacrosanctum Concilium, 1963

Dopo esserci soffermati in un precedente articolo (1) sullo statuto di “canto proprio della liturgia romana” applicato al gregoriano dal n° 116 di Sacrosanctum Concilium, vogliamo dedicare alcune righe all’espressione “ceteris paribus”  ̶  normalmente tradotta “a parità di condizioni”  ̶  presente nello stesso numero della costituzione conciliare e, per lo più, interpretata in senso restrittivo, limitante cioè l’uso del canto gregoriano. Riprendiamo integralmente, innanzitutto, il testo interessato, perché, come è ovvio e opportuno, la prima operazione da fare quando si parla di un inciso è di collocarlo nel suo giusto contesto:

Ecclesia cantum gregorianum agnoscit ut liturgiae romanae proprium: qui ideo in actionibus liturgicis, ceteris paribus, principem locum obtineat. Alia genera Musicae sacrae, praesertim vero polyphonia, in celebrandis divinis Officiis minime excluduntur, dummodo spiritui actionis liturgicae respondeant, ad normam art. 30.” (2)

L’affermazione principale, fondante perciò stesso tutto il numero 116, è che la Chiesa riconosce il gregoriano come il canto proprio della liturgia romana. Da questa affermazione di principio vengono fatte derivare due conseguenze pratiche. La prima è che nelle celebrazioni gli si deve riservare il posto principale. La seconda è che altri generi di musica sacra non si devono, tuttavia, per nulla escludere dalla liturgia a causa di questa primazialità del gregoriano. Ci troviamo di fronte ad un principio chiaro e a due conseguenze pratiche che ne derivano e che sono altrettanto chiare. Qual è, allora, il significato di un inciso come quello inserito nella prima conseguenza pratica fatta derivare dal principio base affermato precedentemente?
Per comprenderlo dobbiamo innanzitutto ricostruire la genesi di detto inciso e, più in generale, delle affermazioni di principio riguardanti il canto gregoriano.
Come molte altre affermazioni di Sacrosanctum Concilium, anche quella in oggetto è debitrice del Magistero precedente, contrariamente a quello che si crede. Per quanto riguarda la liturgia, la musica sacra in generale e il gregoriano in particolare  ̶  oltre alle affermazioni di principio presenti nei documenti della prima metà del ’900, capostipite il Motu proprio Inter sollicitudines (3) di Pio X – è soprattutto il ricchissimo magistero di Pio XII a fare scuola, con una prima Enciclica, la Mediator Dei del 1947, fondante tutto il suo pensiero sulla liturgia; una seconda Enciclica, la Musicae Sacrae Disciplina del 1955, interamente dedicata alla musica sacra (4); ed infine una Instructio de Musica Sacra et Sacra Liturgia, della Sacra Congregazione dei Riti del 1958 (5), che può considerarsi veramente come “il testamento spirituale di Pio XII in materia liturgica” (6). È proprio in quest’ultimo documento che appare per la prima volta nei documenti magisteriali l’inciso “ceteris paribus”:

Cantus gregorianus est cantus sacer, Ecclesiae romanae proprius et principalis; ideoque in omnibus actionibus liturgicis non solum adhiberi potest, sed, ceteris paribus, aliis Musicae sacrae generibus est praeferendus”. (IMSSL 16) (7)

Il contesto nel quale questo capoverso dedicato al gregoriano viene inserito è il “Capitolo II. Norme generali”. Del gregoriano si era già detto qualcosa, ma in senso più generico, nel paragrafo n° 5 del “Capitolo I. Nozioni generali”. Le “Norme generali” del secondo capitolo dell’Istruzione si preoccupano di ricondurre l’esecuzione delle azioni liturgiche “a norma dei libri liturgici legittimamente approvati dalla Sede Apostolica” (8), precisando che “la lingua delle azioni liturgiche è la latina” (9) e che pertanto “nelle Messe in canto si deve usare unicamente la lingua latina” (10) anche nelle Messe lette ad eccezione di “alcune preghiere o canti popolari” (11) che possono essere fatti in volgare, come pure che “il Vangelo e anche l’Epistola vengano letti da qualche lettore in lingua volgare per l’utilità dei fedeli” (12). Segue il n° 16 con l’esposizione del principio sopra citato da cui vengono fatte derivare le seguenti conseguenze:

Perciò: a) la lingua del canto gregoriano, come canto liturgico, è unicamente la lingua latina. b) Quelle parti delle azioni liturgiche che secondo le rubriche sono da cantarsi dal sacerdote celebrante e dai suoi ministri, si devono cantare unicamente secondo le melodie gregoriane, quali sono proposte nelle edizioni tipiche… c) là dove fu permesso con Indulti particolari che nelle Messe in canto il sacerdote celebrante.
Il diacono, il suddiacono o il lettore, dopo il canto della melodia gregoriana dell’Epistola o del Vangelo, possano proclamare gli stessi testi anche in lingua volgare, ciò deve essere fatto leggendo a voce alta e chiara, con esclusione di qualsiasi melodia gregoriana autentica o imitata”. (13)

È chiaro che il contesto legislativo di IMSSL 16 riguarda l’esplicita volontà di ribadire la necessaria fedeltà rubricale per quanto riguarda la lingua latina e il suo naturale ed esclusivo rivestimento musicale liturgico che è appunto il canto gregoriano tale e quale si trova nei vari libri liturgici, dal Messale al Graduale e così via. Tanto è vero che nei numeri seguenti vengono indicate le modalità di un possibile inserimento della “Polifonia sacra” (14) (ed è qui che compaiono le condizioni sulle quali ritorneremo), della “Musica sacra moderna” (15), l’esclusione del “Canto popolare religioso” se non diversamente stabilito per Indulto (16), e l’esclusione in modo totale di quella che viene definita “Musica religiosa” (17). E questo sulla base del principio, ribadito ulteriormente anche al termine del secondo capitolo, che “tutto ciò che a norma dei libri liturgici deve essere cantato… appartiene integralmente alla stessa sacra Liturgia” (18).
Se questo è il contesto nel quale inserire il dettato di IMSSL 16, è inequivocabile che tale numero sia l’ispiratore della successiva indicazione conciliare. Ma con una differenza che è bene non trascurare. Nel caso dell’Istruzione del 1958, infatti, il riferimento ad altri generi di musica sacra cui il gregoriano è da preferirsi è presente nella stessa frase. In SC 116, invece, l’inciso “ceteris paribus” è assoluto, non associato immediatamente agli altri generi di cui esso vorrebbe essere condizione di limitazione. Il senso che l’inciso “ceteris paribus” assume nell’Istruzione del 1958 è allora il seguente: il canto gregoriano è comunque da preferirsi agli altri generi di musica sacra anche quando questi corrispondano a tutte le caratteristiche richieste ad un vero canto liturgico. Infatti, in questo caso “ceteris paribus”  ̶ che alla lettera si traduce “alla pari degli altri”  ̶  ha più chiaramente il significato di “messo al confronto con gli altri (generi)”, oppure “stanti così le cose” e “a parità di circostanze” e pertanto la traduzione più efficace e chiara risulta essere questa:

Il canto gregoriano è canto sacro [per eccellenza], proprio e principale della Chiesa romana; perciò, in tutte le azioni liturgiche non solo si può utilizzare, ma, a parità di circostanze, è da preferire agli altri generi di Musica sacra”.

L’inciso “ceteris paribus” è, quindi, un rafforzativo dell’uso (“non solo si può utilizzare”) e dell’uso preferenziale (“ma è da preferire”) del gregoriano rispetto agli altri generi di musica sacra anche quando questi superano le barriere di ammissibilità, coerentemente con tutto l’impianto di IMSSL, il quale, derivando dalle normative precedenti, è volto a reintrodurre il canto gregoriano ad ogni livello di celebrazione, anche a livello popolare con la partecipazione dei fedeli al canto della liturgia secondo i diversi gradi individuati. È in questo documento, infatti, che vengono proposti per la prima volta i cosiddetti “gradi di partecipazione” (19) che in seguito ritroveremo pari pari nell’Istruzione Musicam Sacram del 1967 (20) .
In SC 116, invece, il termine di confronto viene meno, dal momento che gli “altri generi di musica sacra” sono enunciati solo nel capoverso successivo e “ceteris paribus” si trova pertanto isolato semanticamente e logicamente. Inoltre, la traduzione ufficiale italiana inserisce una sfumatura dalla connotazione giuridica dal momento che le “circostanze” divengono “condizioni”, assimilando in questo modo l’inciso alle clausole contrattuali con cui solitamente si pongono delle uguaglianze a determinate condizioni. Così facendo, è l’uso del gregoriano che risulterebbe essere sottoposto a condizioni e non, viceversa, l’uso degli altri generi di musica sacra, così come appariva chiaramente nel documento del 1958. Le traduzioni tedesca di “ceteris paribus” con “Voraussetzungen” (prerequisiti) e spagnola “circunstancias” (circostanze) si avvicinano di più al significato originale, mentre l’inglese “things” e il francese “choses” rimangono più generici (21).
Ma è veramente questa l’interpretazione da dare all’inciso “ceteris paribus” in SC 116, e cioè una limitazione all’uso preferenziale del gregoriano? Non credo. Innanzitutto, proprio per l’origine di questa espressione, come dimostrato. In secondo luogo, perché verrebbe meno la logicità di tutto l’impianto di SC116.
E allora di quali “condizioni” si parla e a chi sono riferibili?
Di “condizioni” abbiamo detto che si parla in IMSSL. E sono le condizioni di ammissibilità nella liturgia della “Polifonia sacra” e della “Musica sacra moderna”:

La Polifonia sacra si può usare in tutte le azioni liturgiche, ma a questa condizione, che vi sia una schola che la possa eseguire a regola d’arte. Questo genere di Musica sacra conviene specialmente alle azioni liturgiche che si vogliono celebrare con maggiore splendore.” (IMSSL 17)

Parimente la Musica sacra moderna può essere ammessa in tutte le azioni liturgiche, se in realtà risponde alla dignità, alla gravità, e santità della Liturgia, e vi sia una schola che la possa eseguire a regola d’arte”. (IMSSL 17)

Le condizioni, pertanto, sarebbero ancora quelle individuate dalla normativa ecclesiastica fin da Pio X: santità, bontà di forme e universalità, oltre alle possibilità tecnico-artistiche degli esecutori. Esse determinano o meno il possibile inserimento nel progetto liturgico-musicale di altri repertori oltre quello del canto gregoriano, che per natura sua, queste condizioni le soddisfa appieno, ponendosi anche e addirittura – proprio per questo – come modello (22).
I testi scritti a commento di IMSSL non entrano nell’argomento, limitandosi a citare o a parafrasare il dettato dell’Istruzione. Ad esempio, Gelineau così chiosa: “nelle azioni liturgiche [il gregoriano] deve essere preferito – supposta la parità di condizione – agli altri generi di musica sacra” (23). Qui le condizioni divengono “condizione”, ma è chiaro che non è il gregoriano ad essere condizionato ma lo sono gli altri generi di musica sacra, secondo il pensiero di IMSSL.
I commentatori di SC e a MS, invece, interpretano l’inciso “ceteris paribus” di SC 116 in vario modo, secondo l’ideologia ispiratrice. Quelli più ufficiali vanno nel senso di un allargamento dei criteri che SC pone per l’ammissione di altri generi di musica sacra, come, ad esempio, fa Bugnini che, subito dopo aver affermato come “il gregoriano resta il canto proprio della Chiesa e perciò, ceteris paribus (sic), da preferirsi per diritto nativo” così interpreta e conclude: “si noti l’inciso ceteris paribus, che pone l’equilibrio tra i vari generi musicali” (24), quasi glissando su quell’altrettanto significativo “diritto nativo” che lui stesso ascriveva al gregoriano. In senso restrittivo del gregoriano vanno, invece, i commentatori che appartengono all’area Universa Laus leggendo nelle “condizioni richieste” innanzitutto la destinazione esclusivamente assembleare che deve aver il canto liturgico, destinazione, a detta loro, difficilmente applicabile al gregoriano e perciò stesso decretando la completa marginalizzazione se non il completo ostracismo del “canto proprio” della liturgia dalla liturgia stessa. Invece, i commentatori appartenenti all’area ceciliana non entrano in argomento se non per mettere in luce l’ambiguità originaria dell’inciso, o per biasimare l’interpretazione unilaterale, o per deprecare la pericolosità delle conseguenze pratiche delle sue interpretazioni unilaterali (25).
Non dobbiamo sottacere, però, che una piccola complicazione proviene anche dall’Istruzione Musica Sacram del 1967, la quale al n° 50 così si esprime: “Nelle azioni liturgiche in canto, celebrate in lingua latina, al canto gregoriano, come canto proprio della liturgia romana, si riservi, a parità di condizioni, il posto principale”. L’aggiunta “celebrate in lingua latina” sembra voler ulteriormente restringere il campo del dettato conciliare alle sole celebrazioni in lingua latina, tenendo presente che in Italia la CEI ha, di fatto, reso impossibili le celebrazioni in lingua latina quando si è in presenza di fedeli, contraddicendo con questa limitazione persino quanto disposto dal concilio stesso (26). Tuttavia, anche in questo documento che nelle intenzioni originanti avrebbe dovuto rispondere ai quesiti e alle difficoltà sorte nel frattempo, e avrebbe dovuto risolvere i dubbi pratici sulla applicazione della riforma liturgica e della musica sacra (27), l’inciso “a parità di condizioni” non viene né adeguatamente preso in considerazione né tantomeno spiegato, contribuendo in questo modo a lasciare la questione in una sorta di limbo linguistico e canonico.
Da quanto abbiamo detto e dimostrato, mi sembra di poter concludere che nella legislazione ecclesiastica l’inciso “ceteris paribus” lungi dall’essere restrittivo nei confronti del gregoriano, ne metta in evidenza ancor più la preminenza e l’esemplarità. Si tratta di un inciso che mutuato da un documento precedente, ha sì mutato in parte di significato mutando di contesto e, così facendo, ha prestato il fianco a interpretazioni diverse. Tuttavia, pena la negazione di tutto il magistero precedente, l’unica interpretazione possibile risulta essere quella originale, presente nell’Istruzione pacelliana. E le condizioni selettive che l’inciso “ceteris paribus” presuppone vanno (ri)trovate in quelle tradizionali (santità, bontà di forme, universalità) che dovrebbero essere verificate in ogni repertorio o genere musicale che si voglia inserire nella liturgia cantata. D’altronde tale inciso va letto solo nel costante Magistero della Chiesa e non nell’interpretazione dei singoli, musicologi o liturgisti che siano. La volontà della Chiesa è estremamente chiara e si riferisce al gregoriano, oltre che come a suo “canto proprio”, come a preghiera viva per una liturgia viva e ne esige la presenza non come patrimonio storico o storicizzato, o come pezzo museale da mostrare ogni tanto in particolari occasioni, ma come canto che orienta a Dio tutto il “fare” della liturgia, facendone emergere l’“essere”.

Note:
(1) G. SESSANTINI, Il gregoriano e il suo statuto di “canto proprio della liturgia romana”, in Vox gregoriana, Bollettino informativo del centro di Canto Gregoriano e monodie “dom Jean Claire” Verona, anno I, n° 2 Maggio-Agosto 2019.
(2) SC 116.
(3) Vedi anche Lettera al Card. Respighi: Acta Pii X, vol. I, pp. 68-74; v. p. 73s; Acta Apostolicae Sedis (AAS) 36 (1903-04), pp. 325-329, 395-398, v. 398. Anche Pio XI se ne occupa: vedi PIUS XI, Const. apost. Divini cultus: AAS 21(1929), p. 33s.
(4) In AAS 48(1956), pp. 5-25. Ecco le espressioni altamente elogiative riservate al gregoriano: “A questa santità soprattutto si presta il canto gregoriano, che da tanti secoli si usa dalla chiesa, sì da poterlo dire di suo patrimonio. Questo canto, per la intima aderenza delle melodie con le parole del sacro testo, non solo vi si addice pienamente; ma sembra quasi interpretarne la forza e l’efficacia, istillando dolcezza all’animo di chi ascolta; e ciò con mezzi musicali semplici e facili, ma pervasi di così sublime e santa arte, da suscitare in tutti sentimenti di sincera ammirazione e da divenire per gli stessi intenditori e maestri di musica sacra fonte inesauribile di nuove melodie. Conservare con cura questo prezioso tesoro del canto gregoriano e farne ampiamente partecipe il popolo spetta a tutti coloro, ai quali Gesù Cristo affidò di custodire e di dispensare le ricchezze della chiesa. Però, quello che i Nostri predecessori san Pio X, a buon diritto chiamato restauratore del canto gregoriano, e Pio XI, hanno sapientemente ordinato e inculcato, ancor Noi vogliamo e prescriviamo che si faccia, portando l’attenzione a quelle caratteristiche che sono proprie del genuino canto gregoriano; che cioè nella celebrazione dei riti liturgici si faccia largo uso di tale canto, e si provveda con ogni cura affinché sia eseguito con esattezza, dignità e pietà.”
(5) In AAS 50 (1958), pp. 630-663.
(6) F. ANTONELLI, L’Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti sulla Musica Sacra e la Sacra Liturgia, Opera della Regalità, Milano 1958, p.5.
(7) Instr. De Musica Sacra et Sacra Liturgia, (IMSSL) n° 16. Testo in F. ANTONELLI, op. cit. In italiano, nella traduzione ufficiale: “Il canto gregoriano è il canto sacro proprio e principale della Chiesa romana. Perciò in tutte le azioni liturgiche, non solo si può usare, ma anche, a parità di condizioni, è da preferirsi agli altri generi di Musica sacra”.
(8) IMSSL 12.
(9) IMSSL 13.
(10) IMSSL 14a.
(11) IMSSL 14b.
(12) IMSSL 14c.
(13) IMSSL 16.
(14) IMSSL 17.
(15) IMSSL 18.
(16) IMSSL 19.
(17) IMSSL 20.
(18) IMSSL 21.
(19) IMSSL 24 e 25.
(20) MS 7 e 29,30,31.
(21) Le traduzioni nelle principali lingue occidentali sono tratte dal sito ufficiale del Vaticano:
“L’Église reconnaît dans le chant grégorien le chant propre de la liturgie romaine; c’est donc lui qui, dans les actions liturgiques, toutes choses égales d’ailleurs, doit occuper la première place”.
“The Church acknowledges Gregorian chant as specially suited to the Roman liturgy: therefore, other things being equal, it should be given pride of place in liturgical services.”
“La Iglesia reconoce el canto gregoriano como el propio de la liturgia romana; en igualdad de circunstancias, por tanto, hay que darle el primer lugar en las acciones litúrgicas.”
“Die Kirche betrachtet den Gregorianischen Choral als den der römischen Liturgie eigenen Gesang; demgemäß soll er in ihren liturgischen Handlungen, wenn im übrigen die gleichen Voraussetzungen gegeben sind, den ersten Platz einnehmen.”
(22) MSD 21-22.
(23) J. GELINEAU, Canto e musica nel culto cristiano, LCD Torino 1963, p 327. L’edizione originale francese è del 1959.
(24) A. BUGNINI, La musica sacra, in F. ANTONELLI-R. FALSINI (cur.), Costituzione Conciliare sulla Sacra Liturgia. Introduzione, testo latino-italiano, commento, Opera della Regalità, Roma 1964, p. 323. Più avanti, consapevole che “se tutti i generi musicali hanno d’ora in poi diritto di cittadinanza nel culto il loro uso da cosa è regolato?” il principale fautore della riforma liturgica così conclude e risponde: “A mio avviso dai seguenti elementi: a) dalle norme positive della Costituzione o della legislazione musicale, emanate e non superate; b) da norme positive date o da darsi dalla competente autorità ecclesiastica, di cui all’art 22; c) dal buon gusto e dal buon senso”(ibidem, p 324). Negli anni successivi per quanto le normative vennero date, buon gusto e buon senso vennero raramente applicati.
(25) Una disamina in V. DONELLA, Editoriale, in “Bollettino Ceciliano”, Anno 104, N. 3, Marzo 2009.
(26) Cfr CEI, Precisazioni, n° 12. Messale Romano ed. 1983: “Nelle Messe celebrate con il popolo si usa la lingua italiana …. Gli Ordinari del luogo…possono stabilire che in alcune chiese frequentate da fedeli di diverse nazionalità si possa usare o la lingua propria dei presenti o la lingua latina… In altri casi previsti in base ad una vera motivazione vagliata dall’Ordinario del luogo, si deve comunque usare l’edizione tipica del Missale Romanum”. Si noti l’uso dell’indicativo “si usa” dal sapore assolutizzante ed esclusivo, piuttosto che un “si usi”, congiuntivo di genere esortativo e inclusivo.
(27) Cfr MS 2 e 3.

Dominica Pentecostes – 31 Mai 2020

Sollemnitas

Ad Missam in die

Ant. ad introitum Sap 1, 7
Spíritus Dómini replévit orbem terrárum,
et hoc quod cóntinet ómnia
sciéntiam habet vocis, allelúia.

Vel: Rom 5, 5; cf. 8, 11
Cáritas Dei diffúsa est in córdibus nostris
per inhabitántem Spíritum eius in nobis, allelúia.

Dicitur Glória in excélsis.

Collecta
Deus, qui sacraménto festivitátis hodiérnæ
univérsam Ecclésiam tuam
in omni gente et natióne sanctíficas,
in totam mundi latitúdinem Spíritus Sancti dona defúnde,
et, quod inter ipsa evangélicæ prædicatiónis exórdia
operáta est divína dignátio,
nunc quoque per credéntium corda perfúnde.
Per Dóminum.

Dicitur Credo.

Super oblata
Præsta, quǽsumus, Dómine,
ut, secúndum promissiónem Fílii tui,
Spíritus Sanctus huius nobis sacrifícii
copiósius revélet arcánum,
et omnem propítius réseret veritátem.
Per Christum.

Præfatio: De mysterio Pentecostes.

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino Deo nostro.
R. Dignum et iustum est.
Vere dignum et iustum est, æquum et salutáre,
nos tibi semper et ubíque grátias ágere:
Dómine, sancte Pater, omnípotens ætérne Deus.
Tu enim, sacraméntum paschále consúmmans,
quibus, per Unigéniti tui consórtium,
fílios adoptiónis esse tribuísti,
hódie Spíritum Sanctum es largítus;
qui, princípio nascéntis Ecclésiæ,
et cunctis géntibus sciéntiam índidit deitátis,
et linguárum diversitátem in uníus fídei confessióne sociávit.
Quaprópter, profúsis paschálibus gáudiis,
totus in orbe terrárum mundus exsúltat.
Sed et supérnæ virtútes atque angélicæ potestátes
hymnum glóriæ tuæ cóncinunt, sine fine dicéntes:
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus Deus Sábaoth…

Quando adhibetur Canon romanus, dicitur Communicántes proprium.

Ant. ad communionem Act 2,4.11
Repléti sunt omnes Spíritu Sancto,
loquéntes magnália Dei, allelúia.

Post communionem
Deus, qui Ecclésiæ tuæ cæléstia dona largíris,
custódi grátiam quam dedísti,
ut Spíritus Sancti vígeat semper munus infúsum,
et ad ætérnæ redemptiónis augméntum
spiritális esca profíciat.
Per Christum.

Adhiberi potest formula benedictionis sollemnis.

Ad populum dimittendum, diaconus vel, eo absente, ipse sacerdos cantat vel dicit:

Ite, missa est, allelúia, allelúia.
R. Deo grátias, allelúia, allelúia.

Absoluto tempore paschali, exstinguitur cereus paschalis, quem præstat intra baptisterium honorifice servari, ut ex eo, in Baptismatis celebratione accenso, cerei baptizatorum illuminentur. Ubi feria II vel etiam III post Pentecosten sunt dies quibus fideles debent vel solent Missam frequentare, resumi potest Missa dominicæ Pentecostes, vel dici potest Missa de Spiritu Sancto.

© Copyright – Libreria Editrice Vaticana

Messalino in PDF con letture in lingua italiana (da stampare su fogli A3 fronte/retro)

Ecco perché dire no alla Santa Comunione sulla mano

Dal blog Duc in altum di Aldo Maria Valli un contributo di don Alfredo M. Morselli:

Lo Spirito Santo, non una manica di reazionari, ha guidato la Chiesa a ricevere in bocca e in ginocchio la Santa Comunione, perché la storia plurisecolare della Chiesa è guidata dallo Spirito Santo. Cosa che non si può dire dell’opera dissacratoria degli ultimi sessant’anni.

Leggi l’intero articolo di don Morselli qui.

The Church should have a sacred language / La Chiesa deve avere una lingua sacra

Peter Kwasniewski on LifeSiteNews website:

Yes, liturgical Latin is “strange” in the sense that it is not something everyday, familiar, easy, at our level or at our disposal; it evokes the transcendence and majesty of God, the universality of His kingdom, the age-old depths of the Faith. But over time, we identify this set-apart language as a sign of honour, we experience it as a promoter of reverence, and we find in it an invitation to prayer. When we dive into a pool, the moment we hit the water, we know — not just rationally, but viscerally — that we are in a new medium and we must swim. So too when we hear the Latin chant or recited prayers, we know we are in a new medium and we must pray.

Read full article here.

Sì, il latino liturgico è “strano” nel senso che non è qualcosa di quotidiano, familiare, facile, al nostro livello o a nostra disposizione; evoca la trascendenza e la maestà di Dio, l’universalità del suo regno, le secolari profondità della Fede. Ma nel tempo, identifichiamo questo linguaggio distinto come un segno di onore, lo sperimentiamo come promotore di riverenza e troviamo in esso un invito alla preghiera. Quando ci immergiamo in una piscina, nel momento in cui tocchiamo l’acqua, sappiamo – non solo razionalmente, ma visceralmente – che siamo in un nuovo ambiente e che dobbiamo nuotare. Anche quando ascoltiamo canti o recitiamo preghiere in latino, sappiamo di essere in un nuovo ambiente e dobbiamo pregare.

Leggi l’intero articolo (in inglese) qui.