Dominica II “per annum” – 20 Ian 2019

Ant. ad introitum Ps 65, 4
Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi;
psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.

Collecta
Omnípotens sempitérne Deus,
qui cæléstia simul et terréna moderáris,
supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi,
et pacem tuam nostris concéde tempóribus.
Per Dóminum.

Super oblata
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine,
hæc digne frequentáre mystéria,
quia, quóties huius hóstiæ commemorátio celebrátur,
opus nostræ redemptiónis exercétur.
Per Christum.

Ant. ad communionem Cf. Ps 22, 5
Parásti in conspéctu meo mensam,
et calix meus inébrians quam præclárus est!
Vel: 1 Io 4, 16
Nos cognóvimus et credídimus caritáti,
quam Deus habet in nobis.

Post communionem
Spíritum nobis, Dómine, tuæ caritátis infúnde,
ut, quos uno cælésti pane satiásti,
una fácias pietáte concórdes.
Per Christum.

© Copyright – Libreria Editrice Vaticana

Messalino in PDF con letture in lingua italiana (da stampare su fogli A3 fronte/retro)

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Il card. Hume sulla Comunione nella mano

Avrei voluto dividere con altri un’inquietudine concernente la fede del nostro popolo nella Presenza reale del Cristo nell’Eucaristia. La Comunione nella mano, lo spostamento del Santissimo Sacramento dall’altar maggiore, l’assenza di genuflessione hanno, secondo la mia esperienza, indebolito il rispetto e la devozione dovuta a un così grande sacramento. I gesti esterni esprimono una disposizione interiore e, allo stesso tempo, contribuiscono a favorire l’atteggiamento adeguato.

Card. Basil Hume, in La Documentation Catholique n. 2211 del 3/10/1999.

Communion in the hand, moving the Blessed Sacrament from the high altar, failure to genuflect, have in my experience weakened the respect and devotion due to so great a sacrament.

(Catholic Herald 3rd September 1999)

In Epiphania Domini – 6 Ian 2019

Sollemnitas

Ubi sollemnitas Epiphaniæ non est de præcepto servanda, assignatur, tamquam diei proprio, dominicæ a die 2 ad diem 8 ianuarii occurrenti.

Ad Missam in Vigilia

Hæc Missa adhibetur vespere pridie sollemnitatis sive ante sive post I Vesperas Epiphaniæ.

Ant. ad introitum Cf. Bar 5, 5
Surge, Ierúsalem, et circúmspice ad oriéntem et vide
congregátos fílios tuos a solis ortu usque ad occásum.

Dicitur Glória in excélsis.

Collecta
Corda nostra, quǽsumus, Dómine,
tuae maiestátis splendor illústret,
quo mundi huius ténebras transíre valeámus,
et perveniámus ad pátriam claritátis ætérnæ.
Per Dóminum.

Dicitur Credo.

Super oblata
Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera nostra
pro apparitióne Unigéniti Fílii tui
et primítiis géntium dicáta,
ut et tibi celebrétur laudátio
et nobis fiat ætérna salvátio.
Per Christum.

Præfatio de Epiphania.

Ant. ad communionem Cf. Ap 21, 23
Cláritas Dei illuminávit civitátem sanctam Ierúsalem
et ambulábant gentes in lúmine eius.

Post communionem
Sacra alimónia renováti,
tuam, Dómine, misericórdiam deprecámur,
ut semper in méntibus nostris tuæ appáreat stella iustítiæ
et noster in tua sit confessióne thesáurus.
Per Christum.

Adhiberi potest formula benedictionis sollemnis.

Ad Missam in die

Ant. ad introitum Cf. Mal 3, 1; 1 Chr 29, 12
Ecce advénit Dominátor Dóminus;
et regnum in manu eius et potéstas et impérium.

Dicitur Glória in excélsis.

Collecta
Deus, qui hodiérna die Unigénitum tuum
géntibus stella duce revelásti,
concéde propítius, ut, qui iam te ex fide cognóvimus,
usque ad contemplándam spéciem tuæ celsitúdinis
perducámur.
Per Dóminum.

Ubi mos est, pro opportunitate, publicari possunt post Evangelium festa mobilia anni currentis iuxta formulam positam.

Dicitur Credo.

Super oblata
Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, dona propítius intuére,
quibus non iam aurum, thus et myrrha profértur,
sed quod eísdem munéribus
declarátur, immolátur et súmitur, Iesus Christus.
Qui vivit et regnat in sǽcula sæculórum.

Præfatio de Epiphania Domini.

Quando adhibetur Canon romanus, dicitur Communicántes proprium.

Ant. ad communionem Cf. Mt 2, 2
Vídimus stellam eius in Oriénte,
et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum.

Post communionem
Cælésti lúmine, quǽsumus, Dómine,
semper et ubíque nos prǽveni,
ut mystérium, cuius nos partícipes esse voluísti,
et puro cernámus intúitu, et digno percipiámus afféctu.
Per Christum.

Adhiberi potest formula benedictionis sollemnis.

© Copyright – Libreria Editrice Vaticana

Messalino in PDF con letture in lingua italiana (da stampare su fogli A3 fronte/retro)

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Non è pane, è Gesù. Il corretto modo di fare la comunione

di Padre Paul Cocard

Prefazione di mons. Athanasius Schneider

Ed. Fede & Cultura

La Comunione sulla lingua aiuta a mantenere la distinzione, ereditata dalla Parola di Dio e dalla Chiesa primitiva, tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale. Quest’ultimo deputa il prete al compito dell’Eucaristia che ne ha dunque la custodia e la responsabilità. Durante la Messa, l’Eucaristia, la sua celebrazione e la sua distribuzione gli sono affidate. San Giovanni Paolo II aveva sottolineato che il prete ha le mani consacrate per toccare l’Eucaristia.

In questo campo, la Comunione nella mano traduce di fatto una diminuzione e anche un certo rigetto della Fede cattolica nella Presenza reale. È lontano dall’essere neutro: permette al laico di mettersi allo stesso posto del prete nel suo rapporto all’Eucaristia e di smarcarsi da un forte attestato di Fede nella presenza di Cristo sotto le apparenze del pane e del vino consacrato per non riconoscervi che un segno di comunione tra tutti i membri dell’assemblea o, per lo più, un segno di una presenza puramente spirituale del Cristo.

Adoratio Eucharistica ad Orientem

Eucharistic Adoration can and should always be conducted with the priest (or the deacon) and the people facing the monstrance together. The priest (or the deacon) can give the Benediction from the people’s side of the altar rather than moving behind the altar.

L’adorazione eucaristica può e dovrebbe sempre essere fatta con il sacerdote (o il diacono) e il popolo rivolti insieme verso l’ostensorio. Il sacerdote (o il diacono) può impartire la benedizione stando sul lato anteriore dell’altare (verso il popolo), senza girarci intorno per andare dietro.

Msgr. Charles Pope

Come rendere popolare la postura ad orientem senza disorientare le persone

Ecco come abituare meglio il popolo di Dio alla bellezza ed alla naturalezza della postura ad orientem nella Messa

Non si può pretendere che la realtà sia qualcosa di diverso da quello che è. Il fatto è che la maggior parte delle persone considera l’orientamento verso est (ad orientem) come un cambiamento molto grande. Come tale, esso è destinato a essere controverso; presentare argomenti semplicemente accademici non sarà sufficiente per convincere la maggior parte delle persone. Quelli di noi che apprezzano il valore di questo orientamento dovranno fare molto di più per abituare le persone all’idea.

Un ulteriore ostacolo è che non tutti i sacerdoti, anche quelli aperti alla postura ad orientem, sono disposti ad affrontare le ire del loro vescovo in tale materia – e forse questa è una buona cosa. I vescovi moderano la liturgia nelle loro diocesi e i sacerdoti dovrebbero istintivamente voler mantenere l’unità con il loro vescovo. Ci possono essere momenti in cui è meglio che un prete accetti le preferenze del suo vescovo piuttosto che insistere sui suoi diritti. Questa è meno una questione di diritto quanto di prudenza e rispetto. Dopo l’ordinazione, ogni sacerdote promette rispetto e obbedienza al suo ordinario. Quindi, se un vescovo dice che non vuole che la Messa venga celebrata ad orientem come pratica generale, un prete dovrebbe riflettere a lungo e profondamente prima di insistere sul suo diritto a fare quel cambiamento importante nella sua parrocchia.

Avendo tutto questo in mente, mi chiedo se quelli di noi che sostengono l’orientamento verso est per la preghiera eucaristica non potrebbero prendere in considerazione alcuni modi più sottili di abituare i fedeli ad essa. Vi sono numerosi punti nella liturgia e nella pratica liturgica in cui il celebrante rivolge una preghiera a Dio e può rendere la cosa più evidente “girandosi verso” Dio. In alcuni degli esempi che seguono, ipotizzo una sistemazione tradizionale nel presbiterio, in modo tale che il crocifisso sia ben visibile vicino al centro e la sede del celebrante si trovi da un lato ad una certa angolazione rispetto al popolo. Con una tale configurazione, alcuni dei seguenti suggerimenti possono aiutarci a “rivolgerci ad est” e ad abituare le persone alla norma fondamentale secondo la quale dovremmo voltarci verso Dio mentre ci rivolgiamo a Lui.

  • Nella liturgia eucaristica, i riti di ingresso sono condotti dalla sede, che è spesso al lato dell’altare e un po’ angolata verso il popolo. Sebbene il prete sia rivolto giustamente al popolo per salutarlo liturgicamente e per convocarlo al rito penitenziale, non c’è nulla che gli impedisca di rivolgersi al crocifisso e / o al tabernacolo per il Confiteor e / o il Kyrie, quando lui e il popolo implorano insieme la misericordia di Dio.
  • Anche per il Gloria, il prete può essere rivolto verso il crocifisso.
  • Per la Colletta, il sacerdote può volgersi verso il popolo e dire: “Preghiamo”. Quindi, dopo la pausa silenziosa indicata dalla rubrica, può girarsi visibilmente verso il crocifisso e / o il tabernacolo per offrire la preghiera.
  • Alla recita del Credo, non c’è nulla che impedisca al prete di fare qualcosa di simile.
  • Alla preghiera dei fedeli, il sacerdote può rivolgersi al popolo per introdurre la preghiera e poi rivolgersi al crocifisso e / o al tabernacolo mentre legge le preghiere (o mentre le preghiere vengono lette da altri).
  • La preghiera dopo la comunione può essere condotta in modo simile.

Il punto in tutti questi esempi è quello di riabituare il popolo di Dio (a piccoli passi) all’opportunità di volgerci insieme verso Dio quando Lo preghiamo.

Leggi l’articolo completo di mons. Charles Pope qui (in inglese).

Il Latino come lingua liturgica del Rito Romano

L’uso di una lingua sacra nella celebrazione liturgica fa parte di ciò che san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiæ chiama la solemnitas. Il Dottore Angelico insegna: «Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono» (Summa Theologiæ III, 64, 2; cf. 83, 4). La questione del latino va considerata da questa prospettiva.
La lingua sacra, essendo il mezzo di espressione non solo degli individui, ma di una comunità che segue le sue tradizioni, è conservatrice: mantiene le forme linguistiche arcaiche con tenacia. Inoltre, vengono introdotti in essa elementi esterni, in quanto associazioni ad un’antica tradizione religiosa. Un caso paradigmatico è il vocabolario biblico ebraico nel latino usato dai cristiani (amen, alleluia, osanna ecc.), come ha osservato già sant’Agostino (cf. De doctrina christiana II, 34-35 [11,16]).
Lungo la storia, si è adoperata un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali, come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico; il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti occidentali. In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre, lo sviluppo della latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente.
La distanza fra il latino liturgico e la lingua del popolo divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. Questa situazione non favoriva la partecipazione dei fedeli nella liturgia e perciò il Concilio Vaticano II volle estendere l’uso del vernacolo, già introdotto in una certa misura nei decenni precedenti, nella celebrazione dei sacramenti (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2). Allo stesso tempo, il Concilio ha sottolineato che «l’uso della lingua latina […] sia conservato nei riti latini» (ibid., art. 36, n. 1; cf. anche art. 54). Comunque, i Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata totalmente sostituita dal vernacolo. La frammentazione linguistica del culto cattolico si è spinta così oltre, che molti fedeli oggi possono a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma e altrove. In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Senz’altro il latino contribuisce al carattere sacro e stabile «che attrae molti all’antico uso», come scrive il Santo Padre Benedetto XVI. Con l’uso più ampio della lingua latina, scelta del tutto legittima, ma poco usata, «nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità» (ibid.).

(Leggi l’intervento completo di p. Uwe Michael Lang qui)

Introduzione al Canto Gregoriano

Questa trattazione complessa ed articolata intende fornire all’utente tutti i sussidî ed i chiarimenti di cui necessita riguardo al canto gregoriano.  Chiarimenti soprattutto di natura strutturale e schiettamente pratica; non di ordine teorico o teologico o ancor più musicologico.

Non è nostra intenzione quella di stilare un trattato teorico-pratico di canto gregoriano che competa con quelli scritti da eminenti studiosi gregorianisti, né abbiamo la presunzione di sostituirci alla preziosa risorsa dell’esperienza di tanti maestri di cappella e praticanti del canto gregoriano. Tuttavia, e ci preme sottolinearlo, questo manuale non nasce dalla trasposizione in chiave semplicistica di nozioni scritte in un manuale, in un corso scritto; anzi, qui di teoria si troverà proprio il minimo indispensabile, ciò che basta di storico per inquadrare la tematica e quanto abbisogna per evidenziare certe problematiche d’interpretazione. Tutt’altro: questa trattazione si basa sull’esperienza diretta sul campo e su quella indiretta di maestri e insegnanti, la quale è stata unita sia al necessario fondamento teorico che al buonsenso ed alla facoltà di cercare soluzioni adeguate per le parrocchie, dato che non tutte le realtà italiane sono in grado di adottare il canto gregoriano in modo completo.

Scarica il trattato completo in PDF qui.

La formula EUOUAE

La formula EUOUAE serve per il canto, ma non per ragioni ritmiche quanto piuttosto come aiuto mnemonico alla esecuzione dei toni gregoriani. I toni salmodici gregoriani sono otto (più il tono peregrino, di uso molto particolare e circoscritto, il tono detto in directum e alcuni altri toni di uso molto raro), ciascuno dei quali è caratterizzato da una melodia mediana (da fare all’asterisco del versetto, per chi è pratico della Liturgia delle Ore) che è sempre uguale, mentre la melodia conclusiva, alla fine del versetto, può variare notevolmente, ed è indicata da una lettera dell’alfabeto; per es. l’indicazione 1f significa primo tono, conclusione in fa (il che comporta una specifica melodia della conclusione del versetto); oppure 1g3 significa primo tono, conclusione in sol, con una specifica melodia finale che differisce da quelle g1 e g2, pure terminanti in sol.
Poiché ricordare a memoria i sette toni (ovvero le melodie da fare prima dell’asterisco) è semplice, almeno per chi pratica la salmodia con canto gregoriano, mentre ricordare le numerose melodie finali sarebbe molto complesso, al termine dell’antifona con relativa melodia viene posto il testo EUOUAE, con sopra la melodia della specifica conclusione finale da utilizzare per quel salmo; e così la sua esecuzione è facilitata.

EUOUAE is an abbreviation used in Latin psalters and other liturgical books to show the distribution of syllables in the differentia or variable melodic endings of the standard Psalm tones of Gregorian chant. It derives from the vowels in the words “sæculorum Amen” of the lesser doxology or Gloria Patri, which ends with the phrase In sæcula sæculorum, Amen.

EUOUAE es una regla mnemotécnica que se utilizó en la música de la Edad Media para hacer referencia a la secuencia de tonos en el pasaje “sæculorum Amen” de la doxología menor, Gloria Patri que termina con la frase in sæcula sæculorum, Amen. (por los siglos de los siglos, Amén). En las fuentes de canto llano la differentia, es decir, la fórmula melódica que debe ser cantada al final de cada línea de salmodia, se puede escribir sobre cualquiera de las letras EUOUAE, en representación de la primera y la última vocal de Sæculorum, Amen.

EUOUAE é um mnemônico que era usado em música medieval para denotar a sequência de tons na passagem “sæculorum Amen” da doxologia menor, Gloria Patri, que termina com a frase In sæcula sæculorum, Amen. Em cantochãos, a differentia, isto é, a fórmula melódica a ser cantada no final de cada linha da salmódia cantada, poderia ser escrita com as letras EUOUAE, representando a primeira e a última vogal de “sæculorum Amen“.

EUOUAE est un mnémonique utilisé dans la musique médiévale et le chant grégorien pour représenter la séquence de neumes correspondant au passage «sæculorum, Amen» du Gloria Patri.

Chi impara a credere impara a inginocchiarsi

Chi impara a credere impara a inginocchiarsi, una fede o una liturgia che non conoscano più l’atto di inginocchiarsi, sono ammalate in un punto centrale. Per questo il divieto di inginocchiarsi appare come l’essenza stessa del diabolico. O Gesù, come non inginocchiarsi davanti alla tua umiltà, giunta fino alla morte di croce? E pensare che nella liturgia celeste descritta dall’Apocalisse, l’inginocchiarsi – proskynein – ricorre 24 volte. Per questo il piegare le ginocchia alla tua presenza, di te Dio vivente, è irrinunciabile.

Leggi la lettera completa di Mons. Nicola Bux sul sito di Aldo Maria Valli.