41. The Instruction for applying the liturgical prescriptions of the code of canons of the eastern churches mentions the importance of Praying towards the East in No. 107, “Ever since ancient times, it has been customary in the prayer of the Eastern Churches to prostrate oneself to the ground, turning toward the east; the buildings themselves were constructed such that the altar would face the east. Saint John of Damascus explains the meaning of this tradition: ‘It is not for simplicity nor by chance that we pray turned toward the regions of the east …. Since God is intelligible light (1 John 1: 5), and in the Scripture, Christ is called the Sun of justice (Malachi 3: 20) and the East (Zechariah 3: 8 of the LXX), it is necessary to dedicate the east to him in order to render him worship. The Scripture says: ‘Then the Lord God planted a garden in Eden, in the east, and he placed there the man whom he had formed’ (Genesis 2: 8). … In search of the ancient homeland and tending toward it, we worship God. …Waiting for him, we prostrate ourselves toward the east. It is an unwritten tradition, deriving from the Apostles.’
This rich and fascinating interpretation also explains the reason for which the celebrant who presides in the liturgical celebration prays facing the east, just as the people who participate. It is not a question, as is often claimed, of presiding the celebration with the back turned to the people, but rather of guiding the people in pilgrimage toward the Kingdom, invoked in prayer until the return of the Lord.
Such practice, threatened in numerous Eastern Catholic Churches by a new and recent Latin influence, is thus of profound value and should be safeguarded as truly coherent with the Eastern liturgical spirituality.”
41. L’Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del codice dei canoni delle chiese orientali menziona l’importanza di pregare verso l’Est nel num. 107: Sin da tempi antichissimi era in uso nella preghiera delle Chiese orientali prostrarsi fino a terra, rivolgendosi verso oriente; gli stessi edifici sacri venivano costruiti in modo che l’altare fosse rivolto ad oriente. San Giovanni Damasceno spiega il significato di questa tradizione:«Non è per semplicismo e per caso che preghiamo rivolti verso le regioni d’oriente (…). Poiché Dio è luce (1Gv 1,5) intelligibile e nella Scrittura il Cristo è chiamato Sole di giustizia (Mal 3,20) e Oriente (Zac 3,8 secondo la LXX), per rendergli culto è necessario dedicargli l’oriente. Dice la Scrittura: “Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato” (Gen 2,8). (…) Alla ricerca della patria antica e ad essa tendendo, rendiamo il culto a Dio. Anche la tenda di Mosè aveva il telo e il propiziatorio rivolti ad oriente. E la tribù di Giuda, in quanto era la più insigne, si accampò dalla parte rivolta ad oriente (cfr Num 2,3). Nel tempio di Salomone la porta del Signore era rivolta ad oriente (cfr Ez 44,1). Infine, il Signore messo in croce guardava verso occidente, e così noi ci prostriamo rivolgendoci in direzione di lui. Al momento di ascendere in cielo era innalzato verso oriente e così i discepoli lo adorarono, e così verrà, nel modo in cui essi lo hanno visto ascendere in cielo (cfr At 1,11), come lo stesso Signore disse: “Come la folgore viene da oriente e brilla fino ad occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 24,27). Attendendo lui, ci prostriamo verso oriente. Si tratta di una tradizione non scritta, derivante dagli Apostoli»Questa ricca e affascinante interpretazione spiega anche la ragione per la quale chi presiede la celebrazione liturgica prega rivolto verso oriente, proprio come il popolo che vi partecipa. Non si tratta in questo caso, come spesso viene ripetuto, di presiedere la celebrazione volgendo le spalle al popolo, ma di guidare il popolo nel pellegrinaggio verso il Regno, invocato nella preghiera sino al ritorno del Signore.Tale prassi, minacciata in non poche Chiese orientali cattoliche per un nuovo, recente influsso latino, ha dunque un valore profondo e va salvaguardata come fortemente coerente con la spiritualità liturgica orientale.
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La tentazione del protagonismo
Intervento del card. A. Malcolm Ranjith:
Il problema è che noi Vescovi e sacerdoti, in quanto esseri umani, siamo tentati dal protagonismo: metterci al centro ci dà soddisfazione – ciò che chiamo ‘coccolare l’ego’. Con la Messa celebrata versus populum tale tentazione è molto più forte. Con la nostra faccia verso il popolo aumenta la tentazione di essere uno ‘showman’.
In un bell’articolo scritto da un autore tedesco si trova il seguente commento interessante in materia: “Mentre nel passato il sacerdote funzionava come l’anonimo intermediario, primo tra i fedeli, rivolto verso Dio e non il popolo, rappresentante di tutti e con loro offrendo il sacrificio … oggi lui è una persona speciale, con caratteristiche personali, il suo stile personale, la sua faccia rivolta verso il popolo. Per molti sacerdoti questo cambiamento è una tentazione che non riescono a superare … per loro, il livello del loro successo nel protagonismo diventa una misura del loro potere personale e così l’indicatore di un feeling della loro sicurezza e disinvoltura personale” (K. G. Rey, Pubertätserscheinungen in der Katholischen Kirche, – Segni della Pubertà nella Chiesa Cattolica – Kritische Texte, Benzinger, vol. 4, p. 25).
Oggi si nota sempre di più una forte mancanza di consapevolezza di ciò che accade durante la celebrazione eucaristica. Con questo tipo di protagonismo del quale Rey parla, il sacerdote diventa l’attore principale che esegue un’opera teatrale con altri attori su di un palco, e più creativo e attivo egli diventa, più pensa di essere riuscito ad impressionare gli spettatori e così trova una soddisfazione personale. Ma dove è Cristo in tutto questo? Lui sembra essere il grande dimenticato!
Intervento completo qui.
Appello alla formazione sui documenti autentici del Concilio
Nella mentalità comune la riforma della liturgia è fondamentalmente intesa come abbandono del latino e celebrazione «verso il popolo». In questi due elementi, certamente i più impattanti sulla massa delle comunità cristiane, si è vista l’essenza quasi della «nuova liturgia» del Vaticano II. Ora, certamente, questi due elementi sono importanti e fortemente caratterizzanti, tuttavia non al punto da escludere la prassi precedente. La non accettazione assoluta delle lingue parlate e dell’orientamento «verso il popolo» è ugualmente illegittima come l’esclusione assoluta del latino e dell’orientamento «ad Deum». È abusivo sia il non riconoscere le conquiste pastorali della riforma che portano la liturgia al popolo, sia l’assurda e indiscriminata eliminazione della lingua latina e del canto gregoriano. La Chiesa nei suoi documenti ha sempre offerto il giusto equilibrio, che purtroppo è mancato ogni volta che si è voluto imporre l’una o l’altra delle due posizioni estreme.
Coloro che attentamente e regolarmente hanno seguito con intelligenza e spirito religioso di obbedienza, senza indulgere a pregiudizi di sorta, lo sviluppo dei documenti magisteriali postconciliari, soprattutto del papa Paolo VI, hanno potuto constatare la gradualità, la prudenza e l’equilibrio dottrinale e pastorale impressi alla attuazione della riforma liturgica. Purtroppo molti, accantonato l’ascolto del Magistero del Papa, si sono acriticamente abbeverati a scuole, movimenti e comportamenti estranei al pensiero della Chiesa o comunque difformi dal modo di intendere la liturgia, proprio della Chiesa. da ciò deviazioni di ogni genere e incalcolabile perdita di tempo e di floride energie. Per questo oggi ci si trova davanti ad un nuovo, urgente appello alla formazione sui documenti autentici del Concilio e sulle edizioni tipiche dei libri liturgici riformati.
Don Enrico Finotti, La liturgia romana nella sua continuità, Sugarco Edizioni 2011
Dominica II “per annum” – 20 Ian 2019
Ant. ad introitum Ps 65, 4
Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi;
psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.
Collecta
Omnípotens sempitérne Deus,
qui cæléstia simul et terréna moderáris,
supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi,
et pacem tuam nostris concéde tempóribus.
Per Dóminum.
Super oblata
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine,
hæc digne frequentáre mystéria,
quia, quóties huius hóstiæ commemorátio celebrátur,
opus nostræ redemptiónis exercétur.
Per Christum.
Ant. ad communionem Cf. Ps 22, 5
Parásti in conspéctu meo mensam,
et calix meus inébrians quam præclárus est!
Vel: 1 Io 4, 16
Nos cognóvimus et credídimus caritáti,
quam Deus habet in nobis.
Post communionem
Spíritum nobis, Dómine, tuæ caritátis infúnde,
ut, quos uno cælésti pane satiásti,
una fácias pietáte concórdes.
Per Christum.
© Copyright – Libreria Editrice Vaticana
Messalino in PDF con letture in lingua italiana (da stampare su fogli A3 fronte/retro)
Missalette in PDF with readings in English (to be printed on A3 sheets, front/back)
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Il card. Hume sulla Comunione nella mano
Avrei voluto dividere con altri un’inquietudine concernente la fede del nostro popolo nella Presenza reale del Cristo nell’Eucaristia. La Comunione nella mano, lo spostamento del Santissimo Sacramento dall’altar maggiore, l’assenza di genuflessione hanno, secondo la mia esperienza, indebolito il rispetto e la devozione dovuta a un così grande sacramento. I gesti esterni esprimono una disposizione interiore e, allo stesso tempo, contribuiscono a favorire l’atteggiamento adeguato.
Card. Basil Hume, in La Documentation Catholique n. 2211 del 3/10/1999.
Communion in the hand, moving the Blessed Sacrament from the high altar, failure to genuflect, have in my experience weakened the respect and devotion due to so great a sacrament.
(Catholic Herald 3rd September 1999)
In Epiphania Domini – 6 Ian 2019
Sollemnitas
Ubi sollemnitas Epiphaniæ non est de præcepto servanda, assignatur, tamquam diei proprio, dominicæ a die 2 ad diem 8 ianuarii occurrenti.
Ad Missam in Vigilia
Hæc Missa adhibetur vespere pridie sollemnitatis sive ante sive post I Vesperas Epiphaniæ.
Ant. ad introitum Cf. Bar 5, 5
Surge, Ierúsalem, et circúmspice ad oriéntem et vide
congregátos fílios tuos a solis ortu usque ad occásum.
Dicitur Glória in excélsis.
Collecta
Corda nostra, quǽsumus, Dómine,
tuae maiestátis splendor illústret,
quo mundi huius ténebras transíre valeámus,
et perveniámus ad pátriam claritátis ætérnæ.
Per Dóminum.
Dicitur Credo.
Super oblata
Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera nostra
pro apparitióne Unigéniti Fílii tui
et primítiis géntium dicáta,
ut et tibi celebrétur laudátio
et nobis fiat ætérna salvátio.
Per Christum.
Ant. ad communionem Cf. Ap 21, 23
Cláritas Dei illuminávit civitátem sanctam Ierúsalem
et ambulábant gentes in lúmine eius.
Post communionem
Sacra alimónia renováti,
tuam, Dómine, misericórdiam deprecámur,
ut semper in méntibus nostris tuæ appáreat stella iustítiæ
et noster in tua sit confessióne thesáurus.
Per Christum.
Adhiberi potest formula benedictionis sollemnis.
Ad Missam in die
Ant. ad introitum Cf. Mal 3, 1; 1 Chr 29, 12
Ecce advénit Dominátor Dóminus;
et regnum in manu eius et potéstas et impérium.
Dicitur Glória in excélsis.
Collecta
Deus, qui hodiérna die Unigénitum tuum
géntibus stella duce revelásti,
concéde propítius, ut, qui iam te ex fide cognóvimus,
usque ad contemplándam spéciem tuæ celsitúdinis
perducámur.
Per Dóminum.
Ubi mos est, pro opportunitate, publicari possunt post Evangelium festa mobilia anni currentis iuxta formulam positam.
Dicitur Credo.
Super oblata
Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, dona propítius intuére,
quibus non iam aurum, thus et myrrha profértur,
sed quod eísdem munéribus
declarátur, immolátur et súmitur, Iesus Christus.
Qui vivit et regnat in sǽcula sæculórum.
Quando adhibetur Canon romanus, dicitur Communicántes proprium.
Ant. ad communionem Cf. Mt 2, 2
Vídimus stellam eius in Oriénte,
et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum.
Post communionem
Cælésti lúmine, quǽsumus, Dómine,
semper et ubíque nos prǽveni,
ut mystérium, cuius nos partícipes esse voluísti,
et puro cernámus intúitu, et digno percipiámus afféctu.
Per Christum.
Adhiberi potest formula benedictionis sollemnis.
© Copyright – Libreria Editrice Vaticana
Messalino in PDF con letture in lingua italiana (da stampare su fogli A3 fronte/retro)
Missalette in PDF with readings in English (to be printed on A3 sheets, front/back)
Non è pane, è Gesù. Il corretto modo di fare la comunione
di Padre Paul Cocard
Prefazione di mons. Athanasius Schneider
Ed. Fede & Cultura
La Comunione sulla lingua aiuta a mantenere la distinzione, ereditata dalla Parola di Dio e dalla Chiesa primitiva, tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale. Quest’ultimo deputa il prete al compito dell’Eucaristia che ne ha dunque la custodia e la responsabilità. Durante la Messa, l’Eucaristia, la sua celebrazione e la sua distribuzione gli sono affidate. San Giovanni Paolo II aveva sottolineato che il prete ha le mani consacrate per toccare l’Eucaristia.
In questo campo, la Comunione nella mano traduce di fatto una diminuzione e anche un certo rigetto della Fede cattolica nella Presenza reale. È lontano dall’essere neutro: permette al laico di mettersi allo stesso posto del prete nel suo rapporto all’Eucaristia e di smarcarsi da un forte attestato di Fede nella presenza di Cristo sotto le apparenze del pane e del vino consacrato per non riconoscervi che un segno di comunione tra tutti i membri dell’assemblea o, per lo più, un segno di una presenza puramente spirituale del Cristo.
Adoratio Eucharistica ad Orientem
Eucharistic Adoration can and should always be conducted with the priest (or the deacon) and the people facing the monstrance together. The priest (or the deacon) can give the Benediction from the people’s side of the altar rather than moving behind the altar.
L’adorazione eucaristica può e dovrebbe sempre essere fatta con il sacerdote (o il diacono) e il popolo rivolti insieme verso l’ostensorio. Il sacerdote (o il diacono) può impartire la benedizione stando sul lato anteriore dell’altare (verso il popolo), senza girarci intorno per andare dietro.
Msgr. Charles Pope
Come rendere popolare la postura ad orientem senza disorientare le persone
Ecco come abituare meglio il popolo di Dio alla bellezza ed alla naturalezza della postura ad orientem nella Messa
Non si può pretendere che la realtà sia qualcosa di diverso da quello che è. Il fatto è che la maggior parte delle persone considera l’orientamento verso est (ad orientem) come un cambiamento molto grande. Come tale, esso è destinato a essere controverso; presentare argomenti semplicemente accademici non sarà sufficiente per convincere la maggior parte delle persone. Quelli di noi che apprezzano il valore di questo orientamento dovranno fare molto di più per abituare le persone all’idea.
Un ulteriore ostacolo è che non tutti i sacerdoti, anche quelli aperti alla postura ad orientem, sono disposti ad affrontare le ire del loro vescovo in tale materia – e forse questa è una buona cosa. I vescovi moderano la liturgia nelle loro diocesi e i sacerdoti dovrebbero istintivamente voler mantenere l’unità con il loro vescovo. Ci possono essere momenti in cui è meglio che un prete accetti le preferenze del suo vescovo piuttosto che insistere sui suoi diritti. Questa è meno una questione di diritto quanto di prudenza e rispetto. Dopo l’ordinazione, ogni sacerdote promette rispetto e obbedienza al suo ordinario. Quindi, se un vescovo dice che non vuole che la Messa venga celebrata ad orientem come pratica generale, un prete dovrebbe riflettere a lungo e profondamente prima di insistere sul suo diritto a fare quel cambiamento importante nella sua parrocchia.
Avendo tutto questo in mente, mi chiedo se quelli di noi che sostengono l’orientamento verso est per la preghiera eucaristica non potrebbero prendere in considerazione alcuni modi più sottili di abituare i fedeli ad essa. Vi sono numerosi punti nella liturgia e nella pratica liturgica in cui il celebrante rivolge una preghiera a Dio e può rendere la cosa più evidente “girandosi verso” Dio. In alcuni degli esempi che seguono, ipotizzo una sistemazione tradizionale nel presbiterio, in modo tale che il crocifisso sia ben visibile vicino al centro e la sede del celebrante si trovi da un lato ad una certa angolazione rispetto al popolo. Con una tale configurazione, alcuni dei seguenti suggerimenti possono aiutarci a “rivolgerci ad est” e ad abituare le persone alla norma fondamentale secondo la quale dovremmo voltarci verso Dio mentre ci rivolgiamo a Lui.
- Nella liturgia eucaristica, i riti di ingresso sono condotti dalla sede, che è spesso al lato dell’altare e un po’ angolata verso il popolo. Sebbene il prete sia rivolto giustamente al popolo per salutarlo liturgicamente e per convocarlo al rito penitenziale, non c’è nulla che gli impedisca di rivolgersi al crocifisso e / o al tabernacolo per il Confiteor e / o il Kyrie, quando lui e il popolo implorano insieme la misericordia di Dio.
- Anche per il Gloria, il prete può essere rivolto verso il crocifisso.
- Per la Colletta, il sacerdote può volgersi verso il popolo e dire: “Preghiamo”. Quindi, dopo la pausa silenziosa indicata dalla rubrica, può girarsi visibilmente verso il crocifisso e / o il tabernacolo per offrire la preghiera.
- Alla recita del Credo, non c’è nulla che impedisca al prete di fare qualcosa di simile.
- Alla preghiera dei fedeli, il sacerdote può rivolgersi al popolo per introdurre la preghiera e poi rivolgersi al crocifisso e / o al tabernacolo mentre legge le preghiere (o mentre le preghiere vengono lette da altri).
- La preghiera dopo la comunione può essere condotta in modo simile.
Il punto in tutti questi esempi è quello di riabituare il popolo di Dio (a piccoli passi) all’opportunità di volgerci insieme verso Dio quando Lo preghiamo.
Leggi l’articolo completo di mons. Charles Pope qui (in inglese).
Il Latino come lingua liturgica del Rito Romano
L’uso di una lingua sacra nella celebrazione liturgica fa parte di ciò che san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiæ chiama la solemnitas. Il Dottore Angelico insegna: «Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il rispetto in coloro che li ricevono» (Summa Theologiæ III, 64, 2; cf. 83, 4). La questione del latino va considerata da questa prospettiva.
La lingua sacra, essendo il mezzo di espressione non solo degli individui, ma di una comunità che segue le sue tradizioni, è conservatrice: mantiene le forme linguistiche arcaiche con tenacia. Inoltre, vengono introdotti in essa elementi esterni, in quanto associazioni ad un’antica tradizione religiosa. Un caso paradigmatico è il vocabolario biblico ebraico nel latino usato dai cristiani (amen, alleluia, osanna ecc.), come ha osservato già sant’Agostino (cf. De doctrina christiana II, 34-35 [11,16]).
Lungo la storia, si è adoperata un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali, come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico; il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti occidentali. In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre, lo sviluppo della latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente.
La distanza fra il latino liturgico e la lingua del popolo divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di missione. Questa situazione non favoriva la partecipazione dei fedeli nella liturgia e perciò il Concilio Vaticano II volle estendere l’uso del vernacolo, già introdotto in una certa misura nei decenni precedenti, nella celebrazione dei sacramenti (Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2). Allo stesso tempo, il Concilio ha sottolineato che «l’uso della lingua latina […] sia conservato nei riti latini» (ibid., art. 36, n. 1; cf. anche art. 54). Comunque, i Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata totalmente sostituita dal vernacolo. La frammentazione linguistica del culto cattolico si è spinta così oltre, che molti fedeli oggi possono a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma e altrove. In un’epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Senz’altro il latino contribuisce al carattere sacro e stabile «che attrae molti all’antico uso», come scrive il Santo Padre Benedetto XVI. Con l’uso più ampio della lingua latina, scelta del tutto legittima, ma poco usata, «nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità» (ibid.).
(Leggi l’intervento completo di p. Uwe Michael Lang qui)