Celebrare “verso il popolo” o “dare le spalle al popolo”

di don Matteo De Meo*

3 novembre 2009

Se un giorno qualche parroco chiede al suo vescovo di celebrare sull’antico altare monumentale della propria parrocchia, e di riutilizzarlo per le celebrazioni eucaristiche nella modalità, diciamo antica (con le spalle al popolo), non si perde tempo a riunire commissioni liturgiche per valutare l’opportunità teologica e pastorale di tale prassi. E, dopo varie sedute e commissioni, forse si può rientrare in una sorta di “tolleranza”; ma dopo aver subito non pochi contrasti e giudizi di diffidenza: “…Personalmente preferisco celebrare rivolto verso il popolo e non dando le spalle…” ; “…Credo che il sentire della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II sia quello di celebrare verso il popolo…” ; “…Che in alcune parrocchie si celebri verso il popolo e in altre versus Deumpotrebbe causare confusione tra il popolo di Dio, che vede fare cose diverse…” ; “…Prima di prendere una decisione del genere bisogna sentire il parere del popolo…”; “…Ma i bambini non saranno educati bene nel partecipare ad una celebrazione dove il sacerdote dà a loro le spalle …”; “..Non si può accettare una tale celebrazione perché Gesù nell’ultima cena non ha dato le spalle agli apostoli….”; “…la messa è più partecipata quando il sacerdote è rivolto verso il popolo…”; “…Non mi sentirei a mio agio celebrando con le spalle al popolo… anche se questa è la prassi del S. Padre”; “…La prassi di celebrare versus Deumè tipicamente medievale e non ha nulla a che vedere con la prassi tradizionale e antica della Chiesa… L’altare ad Deum è stato giustamente definito “mensolina” e non ha la dignità di un altare per la celebrazione… La dimensione della convivialità, della mensa, della comunione, è un aspetto fondamentale della celebrazione eucaristica che si era dimenticata prima del Vaticano II e che la Riforma liturgica ha riscoperto con la celebrazione verso il popolo…”; “…La celebrazione versus Deum nasconde questa dimensione comunionale esaltando unicamente la dimensione sacrificale della celebrazione liturgica…”.

Ho voluto sintetizzare in queste frasi (realmente pronunciate e non ipotetiche), quelle obiezioni che ricorrono spesso ogni qual volta ci si trova fra sacerdoti – ma anche con vescovi – e con laici (impegnati) a confrontarsi su alcune questioni di liturgia. In questo caso (lo avrete intuito) si tratta della possibilità di poter legittimamente celebrare versus Deum (in gergo comune, purtroppo, “con le spalle al popolo”). È inveterata, oramai, la convinzione che l’unico modo legittimo di celebrare la divina Eucaristia sia quello in cui il sacerdote è rivolto verso il popolo, dando le spalle alla croce. L’antica modalità (il Vetus Ordo) con cui il sacerdote celebrava la parte eucaristica rivolto verso la Croce (versus Deum) è, in alcuni casi, tollerata e spesso considerata non “adatta” ai canoni previsti dalla Riforma liturgica del Vaticano II, quindi da doversi tralasciare. Questo è nei fatti! Chiunque si rechi a Messa potrà, nella stragrande maggioranza dei casi, trovare conferma di quanto appena affermato! Sia che ci si trovi in chiese di nuova costruzione o all’interno di antiche basiliche, ovunque troverà un “altare nuovo”; e in quelle antiche posto davanti a quello monumentale (spesso di discutibile forma e dignità). Insomma la celebrazione versus Deum di fatto nelle chiese, siano esse antiche o moderne, è interdetta! Tutte le operazioni di adeguamento sono indiscutibilmente in questo senso in nome del nuovo spirito liturgico del Vaticano II. Ma quanti sono a conoscenza che la Congregazione per il Culto Divino prevede e non proibisce tale possibilità, tra l’altro mai vietata né impedita, né dal Concilio, né dalla rispettiva Riforma liturgica del Vaticano II (come vedremo in seguito)? Inoltre, tale modalità è, attualmente, suffragata dalla prassi liturgica del S. Padre che, credo, non debba essere ritenuta solo come un mero “suo gusto personale” (come, invece, qualche vescovo mi ha fatto “paternamente” notare!). Spesso queste riflessioni vengono semplicemente liquidate come quel solito pensiero “tradizionalista”, “anticonciliare”, “conservatore”, ecc…! Non può essere altrimenti, se il Concilio viene ricordato da tutti – e dico da tutti, clero compreso – come quell’avvenimento che ha eliminato il latino, ha abbattuto i “muri di separazione” fra presbiterio e fedeli (smantellamento delle balaustre) e cambiato l’orientamento della celebrazione della Messa come le cose più evidenti; questo certamente non è colpa né del Concilio, né della Riforma liturgica, che queste cose non le ha mai affermate (cf. SC 31-58). Ma, stranamente, la Nota Pastorale CEI [1] pone tra i “primi problemi da dover affrontare” per l’attuarsi della Riforma liturgica, proprio queste realtà: […L’adeguamento degli spazi per la celebrazione dell’Eucaristia [2] è stato il primo problema ad essere affrontato dalle nostre comunità nell’immediato periodo post-conciliare ed è stato spesso risolto mediante interventi evidenti come la rimozione delle balaustre e la collocazione di nuovi altari dichiaratamente provvisori ma comunque tali da consentire di celebrare rivolti al popolo…]. Non si può rimanere perplessi nel constatare che, per la questione dell’altare rivolto al popolo, i decreti conciliari non ne fanno alcun cenno. Ancora una volta, se ne parlerà solo nelle Istruzioni postconciliari che, tra l’altro, non impongono nessuna celebrazione “versus populum” e non fanno divieto di nessuna celebrazione “versus Deum” [3].

L’idea che solo la celebrazione “versus populum” come forma corrisponderebbe all’autentica liturgia cristiana favorendo la partecipazione attiva dei fedeli; che solo questa forma sarebbe quella che più dell’altra (versus Deum), si avvicina all’immagine originaria dell’Ultima Cena, si sono imposte dopo il Concilio. Dappertutto si sono costruiti altari “nuovi”, demolendo o abbandonando gli altari “vecchi”, e questo oggi appare come il vero frutto della riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II. Questa interpretazione, purtroppo, sembra avvallata dalla stessa Nota Pastorale CEI sull’adeguamento liturgico del 1996 a cui si fa riferimento in modo univoco ed esclusivo per dirimere eventuali problemi in merito! Ma la Riforma liturgica del Vaticano II non ha mai imposto una tale prassi! La perplessità si impone alla luce dei documenti conciliari e magisteriali.

Quando i padri conciliari esaminarono la dichiarazione che precedette l’approvazione del n. 128 della SC, si riferivano alla liceità di una celebrazione “versus populum” lì dove ci fosse stato un altare adatto a tale possibilità: «Liceat sacrificium Missae celebrare versus populum in altari apto…» [4]. Questa affermazione non voleva assolutamente dichiarare che fosse l’unica forma possibile e che l’antica forma “versus Deum” fosse esclusa, come di fatto è avvenuto nella prassi [5]! La n. 128 della SC indica più che altro una revisione di quelle realtà attinenti al culto sacro, “specialmente per la costruzione degna e appropriata degli edifici sacri, la forma e l’erezione degli altari…”. Il testo latino, difatti, così recita: «…quae rerum externarum ad sacrum cultum pertinentium apparatum spectant, praesertim quad aedium sacrarum dignam et aptam contructionem, altarium formam et aedificationem…recognoscantur…». Si fa riferimento ad una “revisione critica” (infatti il verbo usato è recognoscere) e non ad un “cambiamento”, o ad una “trasformazione di una cosa in un’altra” (in tal caso si sarebbe usato il verbo mutare) Il rischio di questo “fraintendimento” fu intuito già dal Card. G. Lercaro, presidente del Consilium per l’applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia. Nel 1966, in una lettera indirizzata ai capi delle Conferenze episcopali – datata 25 gennaio – richiama fortemente alla “prudenza” da doversi usare rispetto alla questione del rinnovamento degli altari: «…Soprattutto perché, per una liturgia vera e partecipe, non è indispensabile che l’altare sia rivolto versus populum: nella Messa, l’intera liturgia della parola viene celebrata dalla sede, dall’ambone e dal leggio, quindi rivolti verso l’assemblea; per quanto riguarda la liturgia eucaristica, i sistemi di altoparlanti rendono la partecipazione abbastanza possibile. In secondo luogo si dovrebbe pensare seriamente ai problemi artistici e architettonici essendo questi elementi protetti in molti paesi da rigorose leggi civili. …» [6]. La lettera del Card. Lercaro segue naturalmente l’Istruzione Inter Oecumenicis, preparata dallo stesso Consilium ed emanata il 26 settembre 1964, contenente un capitolo (cap. V) sulla progettazione di nuove chiese e altari [7]. È facile dedurre che un simile richiamo fosse dovuto al reale rischio che si procedesse a un tentativo di interpretazione assolutistica e unilaterale. Lo stesso Ratzinger ritiene questa prassi (nel suo senso unilaterale), il frutto di un fraintendimento [8], che si pone in assoluta discontinuità con la prassi liturgica della Chiesa e che ha introdotto “paradossalmente” una sorta di clericalizzazione liturgica “quale non si era mai data in precedenza”.

Da una lettura attenta, e non ideologica, dei documenti magisteriali si evince che le due forme di celebrazione sono possibili, anzi, che il richiamo alla prudenza del card. Lercaro – caduto nel vuoto nella “febbre” di cambiamento del post-concilio – resta sempre valido; che non bisogna estremizzare nessuna posizione ma entrambe sono l’occasione per un confronto, un dibattito e un dialogo alla luce della modalità di ricezione della Riforma liturgica stessa [10]. Inoltre, il principio teologico/liturgico dell’unico altare è stato continuamente disatteso, e continua ad esserlo, nonostante i molteplici richiami fatti dalla Congregazione per il Culto Divino, negli anni che seguirono il Concilio. Infatti, l’usanza di edificare altari nuovi davanti a quelli antichi, più o meno monumentali, divenne prassi comune dappertutto nelle chiese. Bisognava cambiare la modalità della celebrazione a tutti i costi perché questa era una prescrizione del Concilio, e di questo si è ancora convinti! Ma il Consilium stesso reagì subito a questo fraintendimento chiarendo, già nel 1964, i termini di quel “liceat” che era risuonato durante la sessione conciliare: “… Per quanto riguarda la questione se sia consentito, un altare portatile di fronte al fisso verrà risposto: «Di per sé, è consentito, ma non è consigliato… anche se l’altare è collocato in modo che il celebrante deve dare le spalle al popolo [11]»”. Quindi non era una modalità da doversi attuare a tutti i costi. Si è ancora più espliciti nel febbraio del 1972 quando la stessa Congregazione per il Culto Divino ritiene necessario intervenire con un Responso:

“1. È da tollerare un altro altare [stabile] per la celebrazione verso il popolo, su un presbiterio dove vi sia il precedente antico altare [stabile]? Risposta: No, non è tollerabile.

  1. In ogni presbiterio deve sussistere un solo ed unico altare, o verso il popolo o con le spalle al popolo? Risposta: Sì, si può dare solo un unico altare.
  2. Qualora ci siano altari temporanei (successivi agli antichi altari) dopo la pubblicazione della terza istruzione devono essere rimossi? Risposta: Sì, essi devono essere eliminati ai sensi di quanto sopra detto.
  3. Si può tollerare che, dopo la pubblicazione delle suddette istruzioni continuino ad esserci altari provvisori di fronte agli antichi altari? Risposta: No, non può essere tollerato, a meno che non sia una questione temporanea”.

Ma la storia ci ha dimostrato come, ancora una volta, il fraintendimento ha avuto la meglio sulla realtà: ad essere rimossi furono gli altari antichi, causando, tra l’altro, danni irreparabili nelle antiche chiese. Dai pronunciamenti della Congregazione si evince la condanna di una indiscriminata prassi di costruire nuovi altari dappertutto, e il continuo richiamo al principio “dell’unico altare” che bisognava salvaguardare e rispettare. Il problema, a questo punto risulta evidente! Si era frainteso il senso della liceità di una celebrazione verso il popolo come un fatto vincolante, tanto da ritenere l’altra modalità (quella versus Deum) inadatta al nuovo spirito voluto dalla Riforma liturgica.

Ma questi richiami, stranamente continuano ad essere disattesi, tanto che il 3 maggio del 1986 la Congregazione per il Culto Divino in merito all’Introduzione Generale al Messale n. 262 afferma:

“Di solito, in una chiesa di nuova fondazione venga costruito e consacrato l’altare, fisso e può essere rivolto al popolo o con le spalle ad esso. A proposito della posizione del celebrante all’altare, se verso il popolo o con le spalle ad esso, è, tuttavia, non richiesto, e sono ammesse entrambe le possibilità. Il fatto, invece, che in una chiesa ci siano due altari (sullo stesso presbiterio), il nuovo davanti all’antico, certamente non corrisponde allo spirito della Liturgia, e compromette l’aspetto architettonico e artistico” [13].

Nel 1993, ancora una volta, la Congregazione per il Culto Divino dà un secondo Responsum sulla questione di due altari nello stesso presbiterio:

“3 L’installazione di un altare versus populum è certamente qualcosa che le attuali norme liturgiche consigliano. Tuttavia, non è da considerarsi in valore in assoluto. Bisogna considerare i casi in cui l’orientamento dell’altare al popolo non consente, nella sua progettazione, di conservare quello precedente. In questi casi, è meglio attenersi all’essenziale della liturgia, ovvero usare e conservare l’antico altare con le spalle al popolo per celebrare, anziché creare due altari nello stesso presbiterio. Il principio liturgico dell’unico altare su un presbiterio, è teologicamente più importante per la celebrazione comunitaria.

  1. È necessario spiegare chiaramente che l’espressione, “con le spalle al popolo o rivolti al popolo” ‘non ha alcun significato teologico, ma solo in un certo senso di forma esteriore. Ogni Eucaristia è celebrata a lode e gloria del suo Nome e una benedizione per noi e per tutta la sua santa Chiesa… Perché in senso teologico, siamo tutti rivolti al Signore. Infatti il sacerdote all’altare parla al popolo solo nei dialoghi con esso… Tutto il resto è la preghiera al Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo…” Questa teologia deve essere visibile”[14].

Questo principio è talmente importante per la Chiesa che nel gennaio del 1996 la Congregazione chiarisce la questione addirittura con le chiese orientali unite a Roma ma di rito Greco-Bizantino. La prassi di celebrare verso il popolo minacciava l’autenticità del rito greco seguito dalla maggior parte delle chiese orientali e creava in alcuni casi confusione. Infatti, alcune chiese cattoliche orientali, specialmente quelle della diaspora, iniziarono ad usare la celebrazione versus populum, sotto l’influenza delle pratiche cattoliche latine. La competente autorità romana richiama subito che la celebrazione della liturgia verso oriente deve essere preservata e che questo non lede la comunione con Roma: “…Questa pratica (versus orientem) sotto la recente influenza della Chiesa latina è minacciata, in molte Chiese orientali cattoliche. Essa invece, ha un valore notevole ed è in pieno accordo con la spiritualità liturgica orientale, quindi è assolutamente da preservare” [15]. Se diamo uno sguardo alle rubriche dell’Institutio Generalis del rinnovato Missale romanum di papa Paolo VI dell’editio typicadel 26 marzo del 1970, della editio typica altera del 27 marzo 1975, dell’editio typica tertia del 20 aprile del 2000 di Giovanni Paolo II (anche se di fatto il MR fu pubblicato nel 2002), e infine la terza editio typica emendata del 2008, si nota che tutte presuppongono un orientamento comune del sacerdote e del popolo per il momento centrale della liturgia eucaristica [16]. La teologia sottostante alle rubriche, che tutt’oggi sono ritenute nell’ordo Missae, mira a rendere visibile che tutti, sacerdote e assemblea sono rivolti a Dio e non l’uno di fronte all’altro.

Ma purtroppo nella Nota pastorale CEI sembra che non sia stato recepito nulla di tale possibilità e le Istruzioni generali, spesso, sembrano non tener conto di queste più ampie e approfondite riletture. Un immediato confronto fra ciò che la Nota Pastorale CEI indica come “normativo” e la Norma del Messale (n. 299) a cui si fa riferimento lascia alquanto perplessi! La Nota afferma:

[“… La conformazione e la collocazione dell’altare devono rendere possibile la celebrazione rivolti al popolo [17] e devono consentire di girarvi intorno e di compiere agevolmente tutti i gesti liturgici ad esso inerenti. Se l’altare esistente soddisfa alle esigenze appena indicate, lo si valorizzi e lo si usi. In caso contrario occorre procedere alla progettazione di un nuovo altare possibilmente fisso e, comunque, definitivo. La forma e le dimensioni del nuovo altare dovranno essere differenti da quelle dell’altare preesistente, evitando riferimenti formali e stilistici basati sulla mera imitazione. Per evocare la duplice dimensione di mensa del sacrificio e del convito pasquale, in conformità con la tradizione, la mensa del nuovo altare [18] dovrebbe essere preferibilmente di pietra naturale, la sua forma quadrangolare (evitando quindi ogni forma circolare) e i suoi lati tutti ugualmente importanti…] [19].

La Norma del Messale Romano n. 299 a cui la Nota Pastorale si riferisce così recita:

[299. Altare exstruatur a parete seiunctum, ut facile circumiri et in eo celebratio versus populum peragi possit, quod expedit ubicumque possibile sit. Altare eum autem occupet locum, ut revera centrum sit ad quod totius congregationis fidelium attentio sponte convertatur. De more sit fixum et dedicatum.]

[L’altare sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo: la qual cosa è conveniente realizzare ovunque sia possibile. L’altare sia poi collocato in modo da costituire realmente il centro verso il quale spontaneamente converga l’attenzione dei fedeli. Normalmente sia fisso e dedicato.] [20].

La Nota pastorale CEI fa propria questa norma recependola, però, nel seguente modo: [… La conformazione e la collocazione dell’altare devono rendere possibile la celebrazione rivolti al popolo e devono consentire di girarvi intorno e di compiere agevolmente tutti i gesti liturgici ad esso inerenti…].

Ma dal modo con cui il testo latino della Norma n. 299 è formulato si evince che: – Il “…versus populum peragi possit…” è un congiuntivo ed indica più che altro una possibilità (possit – possibile). Per cui la traduzione esatta sarebbe: “poter celebrare rivolti al popolo”. La traduzione italiana delle Norme del Messale, infatti, la recepisce e la traduce in questo modo. Il senso recepito dalla Nota, invece, traduce il possit (possibilità) come una prescrizione, un “doversi”, per cui afferma: “…devono rendere possibile la celebrazione rivolta al popolo…” e “…devono consentire…”. – Se il significato originale della Norma fosse stato in senso prescrittivo (così come è recepito dalla Nota CEI) essa avrebbe dovuto recitare: “…versus populum peragendum…”. (il gerundivo latino indica chiaramente un dovere, invece il congiuntivo sottolinea una possibilità) – Invece la sottile formulazione del paragrafo (possit – possibile) indica chiaramente come la posizione del celebrante di fronte al popolo non sia resa obbligatoria. Per cui non “devono”, ma “possono”, “…è possibile”. Da ciò si evince che la norma indica che la celebrazione versus populum è una possibilità che di per sé non esclude la celebrazione versus Deum egualmente possibile: prevede semplicemente le due forme di celebrazione.

La Nota pastorale CEI, invece, restringe a tal punto questa interpretazione da vincolare addirittura l’altare esistente (altare antico) alla possibilità o meno della celebrazione versus populum ritenuta obbligatoria. Qualora non si potesse soddisfare questa esigenza, la Nota indica che si proceda alla progettazione di un nuovo altare che sostituisca il precedente che non consente di celebrare versus populum: […Se l’altare esistente soddisfa alle esigenze appena indicate, lo si valorizzi e lo si usi. In caso contrario occorre procedere alla progettazione di un nuovo altare…]. E conclude affermando che in modo particolare nelle chiese parrocchiali: […Notevole attenzione deve essere rivolta anche al recupero della centralità dell’altare nuovo in rapporto all’altare preesistente che, essendo in molti casi da conservare integralmente, deve però cambiare funzione…] [21]. Inoltre l’aggiunta: “che è desiderabile ovunque o comunque (quod expedit ubicumque possibile sit), si riferisce alla possibilità di un altare a sé stante e non riguarda l’indicazione della celebrazione versus populum. L’interpretazione esatta si ricava dalla rilettura del testo alla luce della precedente indicazione della Inter Oecumenici 91: [Praestat ut altare maius extruatur a parete seiunctum, ut facile circumiri et in eo celebratio versusu populum peragi possit]. “[Nella chiesa] è opportuno che vi sia l’altare fisso e dedicato, costruito ad una certa distanza dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo” [22]. Per cui ancora una volta si sottolinea la “possibilità” di una celebrazione verso il popolo e, tra l’altro, la separazione dell’altare dalla parete non è una prescrizione ma solo un suggerimento perché sia agevolata la possibilità del sacerdote di potervi facilmente girare intorno.

Questa lettura dei testi è confermata dalle rubriche presenti nel rinnovato Missale Romanum di Paolo VI che presuppongono un orientamento comune del sacerdote e del popolo per il momento culminante della liturgia eucaristica [23]. Inoltre la terza Editio typica del rinnovato Missale Romanum, approvata da Papa Giovanni Paolo II il 10 aprile 2000, e pubblicata nella primavera del 2002, e la tertia emendata del 2008 mantengono queste rubriche [24]. Infine tale lettura dei documenti ufficiali è stata approvata dalla Congregazione per il Culto Divino in un Responso al Card Schönborn del 25 settembre 2000 firmata dal Card. Jorge Arturo Medina Estévez, allora prefetto della Congregazione, e dall’Arciv. Francesco Pio Tamburrino, segretario: «È stato chiesto alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti se l’enunciato del n. 299 dell’Institutio Generalis Missalis Romani costituisca una normativa secondo la quale, durante la liturgia eucaristica, la posizione del sacerdote versus absidem sia da considerarsi esclusa. La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, re mature perpensa et habita ratione [dopo matura riflessione e alla luce] dei precedenti liturgici, risponde: «Negative et ad mentem. [Negativamente e in accordo con i chiarimenti seguenti]: Innanzitutto si deve aver presente che la parola expedit non costituisce una forma obbligatoria, ma un suggerimento che si riferisce sia alla costruzione dell’altare a pariete seiunctum [staccato dalla parete], sia alla celebrazione versus populum. La clausola ubi possibile sit si riferisce a diversi elementi, come, per esempio, la topografia del luogo, la disponibilità di spazio, l’esistenza di un precedente altare di pregio artistico, la sensibilità della comunità che partecipa alle celebrazioni nella chiesa di cui si tratta, ecc. Si ribadisce che la posizione verso l’assemblea sembra più conveniente in quanto rende più facile la comunicazione, senza escludere però l’altra possibilità […].» [25].

Ubi o Ubicumque? La clausola ubi possibile sit, contenuta nel testo della Congregazione per il Culto Divino merita una riflessione ulteriore. Nella Institutio generalis della terza editio typica del 2002, si trova una “piccola” variazione rispetto all’edizione precedente (1975) e a quella del 1970 [26]. Infatti, la norma n. 262 riportata sia nella editio typica del MR del 26 marzo del 1970, sia nella editio typica altera del 27 marzo del 1975 recita semplicemente: Altare maius extruatur a pariete seiunctum, ut facile circumiri et in eo celebratio versus populum peragi possit. …. Infatti riprende l’Istruzione Inter Oecumenicis: Praestat ut altare maius extruatur a pariete seiunctum, ut facile circumiri et in eo celebratio versus populum peragi possit. ….(91) [È preferibile che l’altare maggiore sia staccato dalla parete in modo che si possa facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo.]. È evidente come il testo latino della Istruzione per l’applicazione del Concilio suggerisce solamente che la costruzione dell’altare separato dalla parete, sarebbe preferibile; infatti, usa il verbo praesto – nella forma impersonale praestat – ossia ‘è preferibile’. L’uso di questo verbo chiarisce e rafforza il senso “consultivo”, di suggerimento, di possibilità contenuto nel possit che conclude il periodo con cui il paragrafo è formulato (peragi possit).

Il testo viene ripreso dalle norme del MR ma con una “semplificazione”: si omette il verbo praestat. Per cui la norma 262 iniziava subito con il verbo extruatur; quindi non più, “…è preferibile che l’altare maggiore sia staccato dalla parete…”, ma “…l’altare maggiore sia staccato dalla parete in modo che si possa facilmente girare intorno e celebrarvi rivolto verso il popolo…”. La formulazione del testo nelle IGMR mette in primo piano l’indicazione di separare l’altare dalla parete per potervi celebrare verso il popolo. Non più “sarebbe preferibile che” (in forma di suggerimento), ma “sia costruito staccato dalla parete…”; cioè nel costruire nuove chiese, o nel restaurare e adattare quelle già esistenti, si costruisca l’altare maggiore staccato dalla parete per poter celebrare verso il popolo (ossia una formulazione più prescrittiva). Orbene, mentre nella Istruzione Inter Oecumenicis è chiaro che queste variazioni sono un suggerimento, le IGMR del 1970 e del 1975 gli attribuiscono un significato più prescrittivo. Questo fino al 20 aprile del 2000, quando nella editio typica tertia del MR, la norma, riportata al n. 299 della IGMR (nel frattempo ci sono state altre aggiunte di cui non entriamo in merito), subisce un’ulteriore variazione: “Altare extruatur a pariete seiunctum, ut facile circumiri et in eo celebratio versus populum peragi possit, quod expedit ubicumque possibile sit.”. Viene aggiunta la clausola “quod expedit ubicumque possibile sit” tradotta dall’edizione italiana “il che è desiderabile ovunque sia possibile”. Un Responsum della Congregazione per il Culto Divino del 25 settembre del 2000 fa chiarezza su tale aggiunta emendandola “quod expedit ubi [sic] possibile sit”. Guardiamo più da vicino la vexata quaestio! La parola expedit (è utile, conviene, è vantaggioso) non costituisce una forma obbligatoria, ma anch’essa mette in evidenza solo un suggerimento, e sembra voler colmare la lacuna lasciata dal verbo praestat (è meglio, è preferibile), sebbene abbia una sfumatura di significato più vincolante rispetto a quest’ultimo, non ritenuto dalle IGMR del 70 e del 75, seppur contenuto nella Istruzione Inter Oecumenicis 91. La modalità con cui è stata formulata questa breve clausola tende ad evidenziare la convenienza della posizione versus populum (anche se consigliata e non imposta). Questo significato di preferenza per la forma versus populum è ulteriormente rafforzato dall’avverbio ubicumque. Nel Responsum si fa riferimento alla clausola, ma in questi termini: “…ubi possibile sit” e non “ubicumque possibile sit”. L’avverbio ubicumque è sostituito con un altro avverbio ubi. I due avverbi non si equivalgono ma hanno sfumature di significato diversi: ubi indica più semplicemente una congiunzione temporale, in accordo con il contesto di un’azione possibile e circostanziata: “…lì dove è possibile…”, oppure, “…quando è possibile…”. Infatti il valore dell’avverbio ubi è circostanziato e definito, più semplice dell’avverbio ubicumque. Per cui la n. 299 dovrebbe essere quod expedit ubi possibile sit, letteralmente, “la qual cosa è consigliabile, conveniente, lì dove sia possibile”. Invece ubicumque ha un valore indefinito, ossia “… la qual cosa si faccia dovunque sia possibile…” oppure, “…in qualunque luogo…”, oppure “… in ogni luogo…”. Il valore dell’avverbio ubicumque è più forte rispetto ad ubi; una specie di rafforzativo tendente a estendere la possibilità di un’azione (la qual cosa è consigliabile in qualsiasi luogo possibile, ovunque…).

L’interpretazione fatta dalla Congregazione (ubi possibile sit e non ubicumque possibile sit) chiarisce ulteriormente che la prassi di costruire “nuovi altari staccati dalla parete” e “celebrare rivolti verso il popolo”, non solo non è obbligatoria, ma che tali cambiamenti possono essere fatti lì dove le circostanze lo permettono (lì dove è possibile) e non “ovunque”, come avviene arbitrariamente nella prassi consueta (in un certo senso supportata dal contenuto “ambiguo” dell’attuale norma 299). Infine c’è da chiedersi come mai nella editio typica tertia del 2000, in quella italiana del 2002 e nella stessa tertia emendata del 2008 nulla sia cambiato. La norma continua a recitare: Altare extruatur a pariete seiunctum, ut facile circumiri et in eo celebratio versus populum peragi possit, quod expedit ubicumque possibile sit. [L’altare sia costruito staccato dalla parete per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo, il che è desiderabile ovunque sia possibile. …]. Non si può continuare, per l’ennesima volta ad essere indifferenti ad un pronunciamento della Congregazione per il Culto Divino. In continuità con quelli precedenti, il Responsum del 2000 richiama la necessaria attenzione alle circostanze, ai luoghi, evidenziando ancora una volta, il principio dell’altare unico come criterio liturgico teologico da osservare negli eventuali progetti di adeguamento. Per cui, ritengo sia necessaria una certa revisione della Nota Pastorale della CEI sull’adeguamento delle chiese alla riforma liturgica del Vaticano II del 31 maggio 1996, e credo anche un emendamento della norma n. 299 della Institutio Generalis dell’attuale Messale Romano. Questo si impone, soprattutto alla luce, del Responsum della Congregazione per il Culto Divino del 2000 che respinge l’interpretazione per cui l’unica celebrazione possibile e da doversi fare sia quella versus populum. Si evince, pertanto, che entrambe le modalità di celebrare (versus populum e versus Deum) sono legittime, e che è necessario evitare qualsiasi “contrapposizione” o “estremizzazione” su tale questione. Inoltre, bisogna porre fine a quella indiscriminata prassi di costruire comunque e ovunque altari nuovi davanti a quelli antichi deturpando la bellezza e l’armonia dell’intero edificio sacro. Solo in questo modo si potrà pervenire ad un confronto e a un dialogo pacato e sereno perché “l’ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante realtà che essi significano, siano espresse più chiaramente”. (SC 21).

 

*Dottore in Patristica Ecumenica e docente di Teologia Fondamentale ed Ecclesiologia presso la Facoltà Teologica Pugliese diocesi di S. Severo (FG)

 

[1] Cf. CEI, Commissione episcopale per la liturgia, Nota pastorale, Roma 31 maggio 1996, n. 15.

[2] Cfr. MESSALE ROMANO, Principi e norme, nn. 255-288, 311-312.

[3] Per un approfondimento di tale questione alla luce di una retta interpretazione dei documenti conciliari e post conciliari si rimanda: U.M. LANG, Rivolti al Signore, Siena 2006, pp. 18-25.

[4] CONCILIORUM OECUMENICORUM DECRETA, Sacrosanctum Concilium, n. 128, p. 842.

[5] Cf. F. GIL HELLÍN (ed.), Concilii Vaticani II Synopsis: Sacrosanctum Concilium, Città del Vaticano 2003, p. 389.

[6] Traduzione da G. LERCARO, L’heureux dévloppement, in «Notitiae» 2, 1966, p. 160.

[7] Cf. Sacra Congregatio Rituum, Instructio ad exsecutionem Constitutionis de sacra Liturgia recte ordinandum Inter Oecumenici, in «EV» 2, 1964, p. 350, n. 300.

[8] Cf. J. RATZINGER, Introduzione allo Spirito della Liturgia, Milano 2001 pp. 70-80.

[9] Ibid. p. 76.

[10] Cf. Congregatio De Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum, Editoriale: “Pregare ad orientem versus”, in Notitiae 29, 1993, p. 247.

[11] Cf. Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, Dubia ad n. 91 [Instructio “Inter Oecumenici” del 26 Settembre 1964], (Notitiae 1, 1965, 251).

[12] Cfr. Congregatio pro Cultu Divino,19/2/1972, Prot. 168/72 in Liturgia, CAL,18,3, 1974, pp.928-929.

[13] Cfr. Congregatio pro Cultu Divino, 3.5.1986, : Prot. 313/86, (la traduzione è privata).

[14] Cfr. Congregatio pro Cultu Divino, “Editoriale: Pregare orientem versus” in Notitiae 29, 1993, 245-249.

[15] Cfr. Congregatio pro Ecclesiis Orientalibus: Istruzione per l’applicazione delle prescrizioni liturgiche del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali “Il Padre: incomprensibile”, 6.1.1996, n. 107, (traduzione privata).

[16] Cfr. Missale Romanum ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, editio typica, Typis Poliglottis Vaticani, Città del Vaticano, 1970, Ordo Missae cum populo, p. 391, n. 133 (ad populum versus) e p. 475, n. 142 (versus ad populum) ; Missale Romanum ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concili Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum Ioannis Pauli PP. II cura recognitum, editio typica tertia, Typis Vaticanis, Città del Vaticano 2002, Ordo Missae p. 515, n. 29; p. 600, n. 127; p. 601, nn. 132-133, p. 603 n. 141. La questione è stata già trattata: cf. U.M. LANG, Rivolti al Signore, pp. 17-25.

[17] Cfr. Precis. C.E.I., n. 14; CEI, Benedizione degli Oli e Dedicazione della chiesa e dell’altare, nn. 159; vedi anche CEI, Commissione episcopale per la liturgia, Nota pastorale, La progettazione di nuove chiese, Roma 18 febbraio 1993; MESSALE ROMANO, Principi e norme, n. 269.

[18] Cf. MESSALE ROMANO, 2002 Principi e norme, n. 263.

[19] Cf. CEI, Commissione per la Liturgia, Nota pastorale, cit., n. 17; le sottolineature non sono nel testo ma proprie dell’autore.

[20] Cf. MISSALE ROMANUM, idem, n. 299.

[21] Cf. Nota pastorale, cit., n. 51.

[22] La traduzione dal latino è privata.

[23] Cf. Missale Romanum ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, editio typica, Typis Poliglottis Vaticani, Città del Vaticano, 1970, Ordo Missae cum populo, p. 391, n. 133 (versus populum), p. 473, n. 128 (ad populum conversus), p. 474, n. 133 (ad populum versus), p. 475, n. 142 (versus ad populum).

[24] Missale Romanum ex decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum Ioannis Pauli PP. II cura recognitum, editio typica tertia, Typis Vaticanis, Città del Vaticano 2002, Ordo Missae p. 515, n. 28; p. 600, n. 127; p. 601, nn. 132-133; p. 603, n. 141.

[25] Congregatio pro Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum, Responso, in «Pontifici Consilii De Legum Textibus», Communicationes, vol. XXXII, n. 2, Roma 2000, pp. 171-173, Prot. N° 2036/00/L 26 La questione mi è stata segnalata ed è oggetto di studio del prof. N. Bux.

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