Dal sito liturgiaculmenetfons.it:
La Costituzione liturgica del Concilio Ecumenico Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, dichiara in modo perentorio:
Regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede apostolica e, a norma del diritto, nel vescovo.
In base ai poteri concessi dal diritto, regolare la liturgia spetta, entro limiti determinati, anche alle competenti assemblee episcopali territoriali di vario genere legittimamente costituite.
Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica (SC 22).
E il Codice di Diritto Canonico ribadisce la medesima disciplina col rigore della forma giuridica (cfr. CIC, Can. 838).
I due testi dimostrano quanto sia importante la disciplina liturgica e quali danni subirebbe il culto divino e con esso il popolo cristiano qualora venissero impunemente infrante le leggi che presiedono alla retta celebrazione della liturgia. Ora per non credere che la disciplina sia indispensabile unicamente nella liturgia, quasi che solo questa sarebbe come ingessata da fredde rubriche, è utile richiamare come delle precise regole disciplinari siano intrinseche ad ogni altro ambito vitale della creazione e della rivelazione. Ciò è costitutivo dell’essere creato in quanto tale che riflette in ogni creatura la legge eterna del Creatore. Ed ecco allora che, a modo di esordio, ricordiamo quanto siano necessarie: le leggi insite nel diritto naturale, che fondano la moralità; quelle che presiedono all’esercizio della ragione umana, che fondano il retto argomentare; quelle che impostano la vera teologia, che fondano la retta comprensione del dogma rivelato. Si vede in tal modo come la lex naturalis e la philosophia perennis, la lex credendi e la lex orandi, abbiano bisogno di rigorose leggi disciplinari proprie, nel rispetto delle quali realizzano la loro specifica identità in ordine alla verità alla quale sono finalizzate.
I La disciplina filosofica: la filosofia e le sue leggi
La philosophia perennis o philosophia prima, che i Greci hanno individuato nei suoi principi permanenti, è necessaria per il retto esercizio della ragione in ordine alla ricerca e conoscenza della verità oggettiva degli esseri. La grandezza di questi antichi filosofi, perfezionati alla luce della fede dai filosofi cristiani in specie san Tommaso d’Aquino, sta non nell’aver fondato una loro scuola filosofica, ma nell’aver avuto il dono celeste di cogliere le leggi strutturali, oggettive e insuperabili della stessa costituzione della ratio umana e del relativo processo della conoscenza del reale. Ad essi l’intera umanità deve esser grata e tutti i secoli devono prestar loro attenzione per non deragliare dalle basi stesse della razionalità. In tal senso la filosofia, detta appunto perenne, fonda ogni successiva scuola filosofica, che intenda indagare nel vasto pelago della verità, garantendone i postulati imprescindibili. Ed ecco il valore della retta filosofia come disciplina per la retta conoscenza degli enti. Se questa disciplina vien meno si perde il metodo corretto di approccio al reale e si producono false ‘filosofie’, che non possono più essere garanti del processo conoscitivo perché inquinate e disturbate dalle percezioni soggettive, effimere e illusorie del sentimento (soggettivismo) e della storia umana (storicismo). Da questo fatto si vede quanto sia deleteria un’impostazione filosofica fondata su principi falsi e percorsi pericolosi. La presente crisi della cultura è frutto soprattutto del deficit nel metodo filosofico, che non solo porta ad errate interpretazioni del reale naturale, ma destituisce di ogni credibilità ogni suo impiego nella ricerca razionale nell’ambito soprannaturale della Rivelazione. La sicurezza del metodo infatti condiziona la sicurezza del fine.
II La disciplina teologica: la teologia e le sue leggi
Un identico discorso deve essere fatto anche riguardo alla teologia. Ci limitiamo qui a richiamare il valore dell’antico assioma Philosophia ancilla theologiæ. Non è possibile indagare nel campo del dogma rivelato cristiano senza l’apporto indispensabile della filosofia perenne, che costituisce ciò che vien denominato come Præambula fidei. Senza questi prodromi, desunti dalla ragione naturale (ratio), non è possibile giungere ad una scienza teologica degna di tale nome. Infatti i principi primi, il processo di astrazione e quello di analogia attestano il valore e la necessità della metafisica come orizzonte razionale di rifermento per l’indagine sul dogma della fede. Una teologia priva delle basi metafisiche cessa di essere tale divenendo piuttosto un’esercitazione poetica, letteraria o comunque ideologica.
Un secondo importante aspetto della disciplina teologica riguarda il complesso delle fonti a cui attingere con sicurezza i contenuti del dogma cattolico: sono i dieci loci theologici. La costruzione di un sistema teologico coerente e conforme all’oggetto della sua competenza implica il ricorso fondato a questi loci, che conservano il depositum fidei a diversi livelli di intensità e con diverso grado di autorità e lo trasmettono nel flusso della Tradizione secolare della Chiesa.
Cosa sono e quali sono questi loci teologici?
Sono i ‘luoghi’ in cui rinvenire le prove e le autorità cui appellarsi per fondare e dimostrare la verità cattolica contro gli errori degli avversari. L’opera che costituisce la pietra miliare di questo metodo è il De locis theologicis di Melchior Cano, pubblicato postumo nel 1561, che indica ben dieci loci theologici: sette di natura propriamente teologica: la sacra Scrittura, la Tradizione, la Ecclesia catholica, i Concili, la Ecclesia romana, i Padri della Chiesa e i teologi scolastici; tre definiti alieni, cioè non propriamente teologici: la ragione umana, la filosofia, la storia. L’elenco rispetta un ordine decrescente d’importanza: prima i loci theologici costitutivi (Sacra Scrittura e Tradizione), perché contengono le verità rivelate che costituiscono il depositum fidei; poi i cinque loci theologici interpretativi, quelli cioè che hanno il compito di interpretare autorevolmente la rivelazione; in chiusura quelli alieni [che danno le premesse razionali per l’argomentazione teologica]. Di questi loci, tutti utili al teologo per la sua dimostrazione, alcuni sono regulæ fidei: hanno, cioè, il carattere dell’infallibilità. Hanno questa proprietà, evidentemente, la Sacra Scrittura e la Tradizione, per il fatto che costituiscono il depositum fidei; si tratta però di regole lontane nel tempo (remotæ), inanimate, che non possono interpretare se stesse. Per fare questo servono invece regole vive, che al presente (proximæ) trasmettano fedelmente e interpretino infallibilmente le verità della fede contenute nella Sacra Scrittura e nella Tradizione: non i Padri, quindi, né i grandi teologi scolastici, ma la congregatio fidelium, i vescovi riuniti in concilio e il vicario di Cristo[1] [il Magistero è infatti ritenuto regula proxima fidei].
Si capisce allora perché la Costituzione dogmatica Dei Verbum raccolga il materiale di tutte queste fonti nel trinomio indissolubile: Sacra Tradizione, Sacra Scrittura e Magistero della Chiesa:
È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non poter indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime (DV 10).
IV La disciplina eucologica
La disciplina eucologica riguarda le preci ed implica la loro conoscenza, la loro tipologia, il loro uso liturgico, i loro contenuti teologici, la loro forma letteraria. Sono aspetti molteplici che il sacerdote e tutti quelli che a diverso titolo curano la liturgia devono approfondire.
– La conoscenza dei testi liturgici
È innanzitutto necessario aver una conoscenza personalizzata dei testi eucologici. Non raramente infatti si celebra pronunziando testi mai veramente studiati e restando alquanto estranei ai loro contenuti teologici. Una celebrazione abitudinaria, acquisita spontaneamente per contatto d’ambiente e mai fatta propria con una personale elaborazione, potrebbe portare verso una facile creatività proprio perché non si conosce l’oggettiva ricchezza del testo sacro e perciò non se ne può apprezzare il valore. Naturalmente non è possibile accostarsi con animo sereno al testo liturgico se in modo pregiudiziale non si accetta il carattere tradizionale della liturgia e il fatto che essa sia consegnata e debba essere ricevuta dalla Chiesa che la garantisce; se non si concepisce l’indisponibilità delle preci liturgiche che non possono essere manipolate da privati per quanto teologicamente competenti e spiritualmente eccellenti: nella liturgia, infatti, il soggetto orante è Cristo-capo indissolubilmente unito alla Chiesa, suo mistico corpo. Senza questo principio basilare l’eucologia liturgica viene liquidata in partenza e sostituita con la creatività privata.
– La tipologia e la funzione dei testi liturgici
I testi eucologici vanno riconosciuti secondo la loro diversa tipologia e funzione. La Prece eucaristica (Canone) rappresenta il vertice sommo dell’eucologia sacra e nessun’altra orazione può competere con la sua eminente dignità; seguono le preci sacramentali che contengono la forma stessa di ciascuno dei sette Sacramenti o sono contigue ad essa; nella Messa si parla poi di eucologia maggiore (i prefazi), e di eucologia minore (la collecta, la super oblata e il postcommunio); infine molti altri testi riguardano le molteplici benedizioni contemplate nel rituale. Questa gerarchia dei testi eucologici, se assicura un approccio corretto allo studio della liturgia, induce il sacerdote a saper dare nella celebrazione il dovuto rilievo ai testi maggiori rispetto a quelli minori e mantenere il rito nell’equilibrio delle sue parti. Quando i testi eucologici primari diventano una questione di orologio e altri interventi esorbitano dall’alveo rituale, la celebrazione stessa viene depotenziata, quando non addirittura profanata. Un caso specifico si può ravvisare nella Messa, quando all’estensione eccessiva della liturgia della Parola segue una liturgia sacrificale veloce e minimizzata.
– La struttura letteraria dei testi liturgici
Di grande rilievo per l’ars celebrandi è la conoscenza della struttura letteraria delle varie eucologie, soprattutto delle grandi preci sacramentali. Senza questa preparazione non è possibile al sacerdote esibire in modo competente e degno (digne et competenter) i sacri testi coram populo. Il Canone Romano rappresenta un unicum nella Chiesa universale: la sua composizione ciclico-ascendente eleva potentemente verso la consacrazione quale culmen et fons dell’insieme dei suoi embolismi; nelle altre solenni preci sacramentali si riproduce il modello della preghiera liturgica biblica, assunto sia dalle anafore orientali sia da quelle latine non romane: dopo un excursus sugli eventi della storia della salvezza, vi è l’epiclesi dello Spirito Santo, che invoca il dono di grazia, quindi si conclude con gli impegni morali conseguenti; nei prefazi e nelle orazioni minori il genio romano esplica la sua più eccellente virtù letteraria ricorrendo al cursus (ritmo) e alla concinnitas (brevità), che conferiscono all’eucologia romana classica un carisma di arte e di sacralità non facilmente imitabile. Tutto ciò favorisce l’adozione di un protocollo vocale e canoro facile e consono con la forma letteraria dei testi che devono essere proclamati o cantillati. Una certa composizione recente di nuovi testi eucologici sembra manifestare un qualche deficit in ordine allo scopo cultuale per il quale sono creati: un’eccessiva elaborazione teologica unita ad un linguaggio discorsivo non induce all’esecuzione lirica ed essenziale che compete all’orazione liturgica.
– Il contenuto teologico dei testi liturgici
Non è possibile pronunziare con sapore sapienziale i testi liturgici se non si conosce il pensiero teologico in essi espresso. Pur sapendo che la liturgia non ha una immediata e diretta funzione catechistica, bensì cultuale, non di meno i suoi testi rappresentano più che mai il pensiero dottrinale della Chiesa, al punto che la liturgia è considerata uno dei loci theologici più certi per attingere al depositum fidei. Se da un lato si dovrà evitare che l’azione liturgica scada in una lezione catechistica (pericolo odierno) dall’altro dovrà essere possibile proclamare adeguatamente le solenni preci con quegli accenti indispensabili che ne evidenziano il loro contenuto dogmatico e spirituale. Come nessun buon interprete può assolvere alla sua funzione senza la previa consonanza con il pensiero del personaggio che interpreta, così non è possibile un’ars celebrandi efficace ed incisiva se il sacerdote non è impregnato lui stesso del pensiero dottrinale che le preci sacre contengono e intendono trasmettere. È quindi necessario che, fin dalla formazione seminaristica, il sacerdote abbia realizzato un approfondimento teologico dei testi eucologici della liturgia che dovrà poi presiedere davanti al popolo di Dio. Ciò sarà di grande aiuto anche nella sacra predicazione e nella catechesi extraliturgica impartita ai fedeli. Inoltre il carattere mistagogico della catechesi in tutte le sue forme prevede che sia manifestato ai catechizzandi come il dogma della fede sia riflesso nella liturgia, in modo da non perdere mai di vista l’antico assioma: Lex credendi legem statuat supplicandi.
– La proclamazione e il canto dei testi liturgici
L’impostazione della voce è molto importante per la dignità della celebrazione, per la comprensione dei fedeli e per la solennità dei riti. Nella liturgia non si può conversare come si parla nel quotidiano, ma è necessario assumere con intelligenza e sobrietà un protocollo che sia adeguato al tenore della parola pronunziata davanti a Dio nel clima sacro di un atto cultuale. Non si tratta di assumere toni artefatti e teatrali, che anzi sarebbero deleteri, ma di aver coscienza di stare a conversare con Dio e di manifestare tutta quella sacralità che è intrinseca a tale atto. Ciò deve essere percepito dai fedeli che a loro volta devono assumere i medesimi sentimenti e gli stessi protocolli che sono propri della preghiera. Ed ecco il valore della vox submissa nelle preci silenti, della sobria recitazione vox clara delle orazioni sacerdotali, della nobile proclamazione delle preci sacramentali, della solenne cantillatio delle parti previste secondo il grado di solennità e le esigenze del testo liturgico che viene volta a volta interessato. Tutto questo tende ad essere compromesso, da un lato dall’uso acquisito del microfono, che permette certo la comunicazione di ogni voce, ma induce spesso ad una livellante funzionalità; dall’altro dal collasso della dimensione cultuale in favore di una prevalente animazione dell’assemblea: è il dramma dell’orientamento che se ridotto esclusivamente ad homines fa dell’azione liturgica una continua conversazione di carattere catechistico-umanitario. Non si deve dimenticare che, nella liturgia Romana, la cantillatio sacerdotale delle parti sue proprie sta alla base del canto liturgico e precede ogni altro livello dei testi destinati al canto. In realtà proprio questa antica forma lirica assegnata al sacerdote sembra ormai essere ritenuta impraticabile e la sua scomparsa ha devitalizzato la solennità liturgica proprio nel suo apice. Credo non sia cosa di poco conto che il sacerdote, fin dalla sua formazione seminaristica, sia introdotto alla cantillatio liturgica e ne sia abilitato in vista della dignità del culto e dell’edificazione dei fedeli. Una eccessiva impostazione pragmatica della pastorale e una pratica sociologica della stessa liturgia hanno portato all’alienazione della dimensione contemplativa e primaria della liturgia, che non potrà mai essere perduta perché intrinseca alla natura del culto in quanto tale.
Alla luce di queste considerazioni si potrà fondare su basi sicure e convincenti il dovere del sacerdote e il diritto dei fedeli all’osservanza di una rigorosa disciplina eucologica, in modo che alla fedeltà umile del sacerdote, che nell’azione liturgica accede davanti al Signore senza alterare il pensiero di Cristo e le leggi della Chiesa, corrisponda l’adorazione grata dei fedeli che ricevono dalla liturgia, non un culto «modellato sull’uomo» (Gal 1,11) e frutto di «un imparaticcio di usi umani» (Is 29, 13), ma quello «ricevuto per rivelazione di Gesù Cristo», secondo le parole dell’Apostolo (Gal 1, 12).
V La disciplina rituale
La disciplina rituale riguarda i riti nella loro globalità, ossia i gesti, le posizioni, i movimenti del corpo ed anche l’uso di simboli, di abiti e di arredi connessi alla natura dei riti. Tutto questo viene indicato, definito e comandato dalle rubriche, che si intrecciano alle preci per condurre il sacerdote, gli altri ministri e l’assemblea, con ordine e precisione, nell’azione sacra.
Per una comprensione del significato specifico delle rubriche è necessaria la conoscenza delle Premesse (Prænotanda) al Messale e agli altri libri liturgici. In esse si danno le motivazioni teologiche dell’impostazione generale del rito e delle sue parti specifiche. Non è corretto limitarsi all’esecuzione materiale delle rubriche, indicate volta a volta nel corso del rito, senza aver prima acquisito il senso teologico e liturgico di esse. Solo a questa condizione sarà possibile innanzitutto al sacerdote evitare un rubricismo funzionalistico, che non tarderà a deviare verso una improvvisazione libera e soggettiva. I Prænotanda, soprattutto dei nuovi libri liturgici, mirano a formare celebranti preparati e coscienti in ordine agli atti rituali che devono porre.
Il campo di indagine è alquanto vasto ed è necessario contenere le osservazioni su alcuni aspetti della ritualità, come ad esempio: le mani e le braccia; il capo e lo sguardo; il corpo e l’abito.
– Le mani e le braccia
La posizione delle mani e delle braccia è forse l’elemento più ricorrente e prevalente della gestualità sacra. Le mani giunte costituiscono l’atteggiamento ordinario per accedere e stare all’altare: da questo gesto, curato con proprietà e mantenuto con costanza, dipende la devozione del sacerdote e del popolo che lo osserva. L’indisciplina delle mani, che manipolano senza necessità oggetti e pagine o che versano in posizioni sconnesse e profane, assecondando con superficialità moti inconsulti e irriflessi, inducono alla distrazione e rivelano un animo privo di devozione e lontano dal quel sentimento interiore che deve ispirare i gesti sacri. Con le mani appoggiate sulle ginocchia il sacerdote siede in ascolto della parola di Dio; con le mani elevate con giusta discrezione il sacerdote innalza la lode e proclama la gloria dell’Altissimo; con le mani nobilmente estese sulle oblate o sul popolo invoca l’epiclesi dello Spirito Santo; con le mani trepide tocca i mistici doni, li eleva con dignità sacra, li spezza con attenta circospezione, li porge con venerazione nella santa comunione; con le mani, infine, benedice e congeda il popolo. Qui si capisce quanto incomba al sacerdote la disciplina delle mani, che devono essere il riflesso delle «mani sante e venerabili» (Canone Romano) del Signore, contemplate nell’atto sublime dell’istituzione dell’Eucaristia. Per questo la Chiesa unge le mani sacerdotali col sacro crisma e comanda che il sacerdote, premessa in sagrestia l’abluzione rituale, acceda all’atto consacratorio col lavabo, come già gli Apostoli furono purificati con la lavanda dei piedi.
– Il capo e lo sguardo
Il capo raccoglie l’identità profonda del complesso corporeo della persona e lo sguardo rivela i sentimenti interiori dell’anima. Ed ecco il valore di una saggia gestione dei moti del capo che devono indicare le varie fasi del culto e indirizzare i fedeli ad una vigile imitazione: il capo si tiene normalmente rivolto verso il luogo del mistero e nei momenti meditativi si tiene abbassato in atto di riflessione; nel pronunziare i Nomi santi si inchina. Mai è lecito sconvolgere il capo in ogni direzione assecondando rumori o mostrando inutili curiosità: il sacerdote non presiede la santa assemblea al modo di un animatore, ma con la gravità di chi sta sempre rivolto al Signore e proprio per questo diventa più che mai guida ed esempio per il popolo. Una delicatezza ancor maggiore interessa lo sguardo che esige il controllo degli occhi: il sacerdote porta il suo popolo ai santi misteri contemplandoli con adorazione ed amore in primo luogo lui stesso. Polo indiscusso di attrazione permanente in tutto l’arco della celebrazione liturgica è l’altare al quale è rivolto lo sguardo dei ministri e dei fedeli: mai l’altare deve uscire dall’orizzonte di riferimento, neppure quando dall’ambone è proclamata la parola di Dio e nemmeno quando vengono amministrati i Sacramenti. Cristo ha nel simbolo dell’altare (soprattutto se dedicato) il suo trono di presidenza invisibile e il suo referente per elargire ogni grazia e beneficio spirituale. Vi è tuttavia un momento nel quale l’altare non scompare, ma perde temporaneamente il suo fulgore: sono gli istanti nei quali si rende visibile nel sacramento quell’Altare vivo che è Cristo stesso nella sua presenza reale. Allora l’altare in qualche modo depone la sua maestà per prostrarsi davanti a Colui che officia permanentemente sull’altare d’oro del cielo e discende sub specie sacramenti sul suo altare terreno.
– La gravitas sacerdotalis
Riguardo al corpo possiamo richiamare ad una virtù necessaria all’esercizio del culto, soprattutto quello pubblico ed ufficiale qual è la liturgia: la gravitas sacerdotalis. L’insieme composito delle prestazioni corporali deve essere ispirato a movenze e gesti pervasi da gravità, in modo da non indulgere mai ad atteggiamenti profani, ancor meno plateali, e trasmettere all’assemblea santa la dignità del sacerdote insignito dal carattere sacro e la sublimità degli atti rituali, che nella loro più alta espressione raggiungono l’identificazione con i gesti stessi del Signore, quando il sacerdote agisce in persona Christi capitis. La gravitas scaturisce dal buon senso naturale e dalla pietas soprannaturale, che riceve dalla tradizione liturgica secolare le migliori modalità create dalla fede dei Padri, perfezionate dalla pietà dei Santi e affinate dal vaglio secolare dell’uso liturgico. Ricorrere con umiltà a tali comportamenti è segno di saggezza ed è la migliore difesa da una presunta modernità che non tarderà a manifestarsi effimera. La gravitas si acquisisce, più che nello studio, nell’esperienza celebrativa viva, che dovrebbe essere offerta con sicurezza anzitutto dalla liturgia pontificale e dall’esempio illuminato dei vescovi. Di conseguenza la cattedrale dovrebbe rappresentare la migliore palestra liturgica dalla quale i futuri sacerdoti e l’intero clero dovrebbe poter attingere in modo permanente per una rigorosa verifica. Ed ecco che il corpo si piega profondamente con l’inchino davanti all’altare, alla croce, alle immagini sacre e agli oggetti benedetti secondo le indicazioni delle rubriche; genuflette con devozione davanti al santissimo Sacramento; si inginocchia nell’adorazione eucaristica e nei riti penitenziali; si prostra nelle sacre ordinazioni e nell’actio liturgica del venerdì santo; incede con proprietà nelle processioni liturgiche; siede con dignità sacra nei momenti stabiliti. Tutto questo comportamento dipende al contempo da una vigilanza interiore e da un continuo controllo esteriore, che nell’esercizio costante diventa un habitus permanente, che conferisce al sacerdote l’acquisizione spontanea della virtù della gravitas. Occorre evitare l’errore, oggi alquanto diffuso, di ritenere la gravitas sacerdotalis e l’impegno per essa un sintomo patologico, che incrinerebbe una presunta autenticità e impedirebbe l’impatto pastorale. In realtà sono proprio questi due elementi che la esigono: senza gravitas l’autenticità scade nella superficialità e l’efficacia pastorale crolla miseramente nella profanazione.
– L’abito liturgico
Un discorso specifico deve essere fatto riguardo all’abito liturgico che riveste il corpo dei ministri sacri. La normativa liturgica impone di assumere i paramenti in modo completo e di portarli in modo degno. Non si tratta di una mera questione estetica, ma di una necessaria attestazione della eccelsa dignità sacerdotale e della sublimità dei misteri ai quali il sacerdote deve «ministrare». Che questo sia un costume di diritto divino lo attesta con ogni evidenza la sacra Scrittura, dove Dio stesso stabilì l’uso, la forma e la qualità dei paramenti sacri, che dovevano rivestire il sommo sacerdote Aronne e tutti gli altri sacerdoti e leviti del tempio. La Chiesa, seguendo il suo Maestro e Signore, che venne non per abolire, ma per portare a compimento l’opera della salvezza, ha continuato ad usare, secondo le mutate esigenze della liturgia cristiana, i sacri paramenti e ne ha elevato grandemente la preziosità e la simbologia. Vi sono tuttavia delle notevoli insidie che attentano all’uso degli abiti sacri, soprattutto se preziosi e antichi. Si tratta del pauperismo che, in nome di una presunta ‘povertà evangelica’, spoglia totalmente i riti della loro grandezza e solennità, quasi che dovesse venir meno la maestà di Dio ed essere sostituita con la desolazione della croce o ancor più con una confidenza buonista e paritaria con l’Onnipotente in nome di un ricorso banale all’Abbà evangelico. Inoltre l’indigenza del povero dovrebbe, secondo questa visione riduttiva, distogliere da ogni manifestazione della gloria divina che sempre ha costituito l’intento primario della contemplazione adorante delle realtà celesti, intrinseca alla liturgia. Ed ecco che la disciplina rituale comanda di aver cura dei sacri parati e di indossarli in tutte le loro parti senza gratuite omissioni. La loro assunzione inoltre deve avvenire in un clima di preghiera e di sacro riserbo in modo da poter portarli con proprietà sacra nel corso dei riti. Il recupero delle preci della vestizione nella præparatio ad Missam potrebbe aiutare non poco a creare il giusto rapporto con l’abito liturgico. La confezione di paramenti di qualità, la loro benedizione e la conservazione accurata nella sagrestia deve diventare un’incombenza inalienabile del sacerdote, che a ciò deve essere formato per esercitare in prima persona l’ostiariato, ministero che inerisce alla natura stessa dell’Ordine. Per una completa preparazione in tale materia vi è pure la necessità di saper valutare il valore artistico e culturale dei parati antichi o comunque preziosi, in modo da poter realizzare la loro catalogazione ed eventualmente la loro esposizione museale in ambito sacro per la gloria di Dio e l’onore della sua Chiesa. Ritenere che tale preparazione contrasti con la ‘mentalità evangelica’, sia di inciampo ad una pastorale pragmatico/sociologica e non interpreti le istanze odierne delle molteplici ‘sensibilità ecclesiali’, sarebbe come affermare che l’intero complesso dell’arte e della cultura dei popoli dovrebbe essere ritenuto insignificante per la società moderna.
VI La disciplina musicale
Dal regime della disciplina liturgica non possiamo escludere una parte essenziale della liturgia stessa, che è la musica sacra. Anche questa deve sottostare a precise regole che ne assicurino l’identità di musica al servizio della liturgia e ne garantiscano l’efficacia nell’educazione spirituale del popolo di Dio. Possiamo indicare alcune leggi basilari:
– La musica sacra parte necessaria della liturgia solenne
La Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium afferma: «Il canto sacro legato alle parole è parte necessaria o integrante della liturgia solenne» e prosegue: «L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini Uffici sono celebrati solennemente in canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva (actuose) del popolo» (SC 112). Da questa affermazione si desume che non è secondo la mente della Chiesa escludere la forma della liturgia solenne in favore di una permanente recitazione feriale. Il popolo di Dio ha diritto di avere nelle domeniche e nelle feste dell’anno liturgico la celebrazione solenne della liturgia secondo i vari gradi di solennità. Da ciò nasce la necessità di una adeguata abilitazione al canto sacro del sacerdote, dei ministri e della schola cantorum. Un costume secolarizzato e un ritmo funzionalistico porta facilmente ad una liquidazione ingiustificata della solennità con gravi danni all’aspetto contemplativo del culto.
– Si canta la liturgia e non nella liturgia
Una seconda regola potrebbe essere espressa così: Si canta la liturgia e non nella liturgia. Infatti la Costituzione liturgica afferma: «La musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia esprimendo più dolcemente la preghiera o favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri» (SC 112). Sono i testi della liturgia che devono essere cantati e non altri testi sostitutivi o introdotti indebitamente nel rito. Non raramente il rito liturgico, riguardo ai canti, sembra essere solo l’occasione per fare altro dal rito stesso, quasi che la Chiesa appalti ad altri autori sia il testo dei canti, sia la melodia che li riveste. In tal caso però la liturgia nella sua parte musicale cessa di essere preghiera pubblica ed ufficiale della Chiesa per assecondare sensibilità religiose private e talvolta difformi dal senso dei misteri stessi della fede che vengono celebrati. In questo specifico settore, perciò, non si potrà realizzare il fine proprio della liturgia e in essa della musica sacra «che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli» (SC 112).
– Il carattere sacro della musica liturgica
Una terza importante regola è il carattere sacro della musica impiegata nella liturgia. Non tutto ciò che è fuori del santuario è pure adatto ad entrare in esso. Già il papa san Pio X ebbe a definire le caratteristiche essenziali di una musica autenticamente sacra: «La musica sacra deve possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità, la bontà delle forme e l’universalità» (Inter pastoralis, n. 2). Ora tali qualità hanno un carattere oggettivo, ossia rilevabile da ogni intelligenza retta e onesta, e permanente nel tempo, ossia superiore alle fluttuazioni soggettive delle percezioni contingenti e delle sensibilità storiche. Evidentemente in una prospettiva soggettivistica, quale è oggi il pensiero dominante, non si accetta un’interpretazione sostanzialmente univoca di tali caratteristiche e si presume di assegnare, con sentimento cangiante e giudizio fluido, l’abilitazione liturgica a musiche strutturalmente incapaci di produrre quella nobile sacralità che esige il culto della Chiesa nella sua esperienza secolare.
– Il modello del canto gregoriano
Infine è necessario un modello di sicura referenza affinché la musica sacra possa valutare la sua idoneità al servizio liturgico. Per il rito Romano la Chiesa non esita a proporre il gregoriano e la polifonia classica come il frutto più eccelso dell’esperienza celebrativa dei secoli. Infatti la Sacrosanctum Concilium afferma: «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana» (SC 116). Con tali melodie la Chiesa ha plasmato il cuore dei santi, ha ispirato il genio dei musicisti, ha formato il sensus fidei del popolo cristiano e ha trasmesso di generazione in generazione il depositum fidei, che, oltre alla precisione logica dei termini teologici ha bisogno della contemplazione lirica della musica sacra, che canta il dogma. L’emarginazione di questo immenso patrimonio non solo contrasta col dettato conciliare, ma estingue un’opera incessante dello Spirito Santo, che nel crogiolo dei secoli ha elaborato il linguaggio musicale più adatto a rivestire e potenziare la Parola rivelata e il culto comandato dall’Alto.
[1] D. Vitali, «Relazione tra Bibbia, Tradizione e Chiesa», in Vita pastorale, n. 10, novembre 2010, p. 72.