È vero che il canto deve esprimere anche la gioia e il clima di festa, ma si tratta di una gioia spirituale, del tutto diverso dalla “caciara” spensierata delle nostre feste terrene. Il gregoriano resta dunque un modello, nel senso che detta i principi ai quali ogni altro tipo di musica che voglia avere un posto nella liturgia deve ispirarsi: valorizzazione della Parola (ovviamente biblica o che richiami testi “solidi” della tradizione cristiana) e pedagogia spirituale. Il merito del concilio è di aver ribadito che questi principi sono perseguibili anche attraverso altre forme musicali quali la polifonia, l’innografia e certi tipi di canto popolare.
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Per favorire il canto popolare e la partecipazione dei fedeli sono passati in secondo piano le parti fisse e proprie della liturgia. Ma tutto questo non è né voluto né inteso dal concilio. Anzi, l’istruzione post-conciliare Musicam sacram, del 1967, afferma proprio il contrario: le parti da privilegiare nel canto sono quelle fisse e quelle presidenziali. Sì, avete capito bene: prima di tutto dovrebbero essere cantate le collette, i prefazi, le parti fisse, poi eventualmente anche il canto di ingresso, di offertorio, finale. Oggi invece ci troviamo nella situazione in cui quasi nessun sacerdote canta o sa cantare, perché nei seminari non si insegna più (o se viene fatto, lo si fa con la presunzione che si tratti dell’ora di “educazione fisica”). I pochi che cantano vengono additati come reazionari e preconciliari (!); in compenso in ogni Messa di ogni giorno dell’anno si intonerà immancabilmente all’inizio “Noi canteremo gloria a te”.
(don Riccardo Pane, Liturgia Creativa, pagg. 132-135)
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